martedì 17 marzo 2009

Prima del progetto

Stiamo parlando di un progetto di aiuto allo sviluppo nell’ambito della cooperazione internazionale. Non si tratta di un progetto di “emergenza” né di “ricostruzione” e neanche di “assistenza”[1]: siamo nel campo dell’aiuto allo sviluppo o all’auto-sviluppo e dell’assistenza sostenibile[2], secondo le categorie utilizzate da Javier Schunk.

Il documento di progetto
Qualsiasi programma o progetto di cooperazione internazionale venga portato avanti, le sue probabilità di successo crescono (anche) in parallelo alla perizia con cui sono stati elaborati i documenti programmatici.
Il “progetto” è quindi innanzitutto un documento scritto, cui si dà una duplice funzione: illustrare l’azione ai diversi interessati alla realizzazione dell’idea progettuale per ottenere adesioni e finanziamenti, e in seguito servire da guida per la messa in atto delle azioni previste.

Il ciclo di progetto e la metodologia del quadro logico
Negli anni 60-80 sono state acquisite, a livello internazionale, utili esperienze nella gestione dei progetti; ciò ha portato a riconoscere i più frequenti errori metodologici e quindi a sviluppare un approccio standardizzato che aiutasse a prevenirli. E’ così sorto il concetto di “ciclo” di progetto, che prevede la sua ripartizione in una serie di fasi ben distinte ma integrate, cioè concepite e gestite in modo da essere interdipendenti. Ciò vuol dire che ogni fase tiene conto delle analisi, informazioni e metodologie del le fasi precedenti, e la gestione è concepita e realizzata come insieme di processi mirato a strutturare e facilitare il raggiungimento degli obiettivi prefissati in modo efficace ed efficiente.
La gestione integrata del ciclo di progetto ha comportato l’assunzione della metodologia del quadro logico come cassetta di strumenti per il perseguimento dell’obbiettivo, che in generale, è sempre quello di contribuire a cambiare una situazione insoddisfacente in una situazione soddisfacente: dal problema alla sua soluzione.
La metodologia del quadro logico è allo stesso tempo una filosofia d’intervento ed un insieme di tecniche da utilizzare metodicamente, tra cui la matrice del quadro logico è il più caratterizzante.

La redazione del documento
Una delle conseguenze dell’adozione generalizzata da parte degli organismi di aiuto internazionale della metodologia del quadro logico è stata la standardizzazione del modo di organizzare e scrivere il documento di progetto.
Il format usato a tale scopo può presentare lievi differenze a seconda dell’organizzazione, ma si adegua sempre ad una sequenza logica che corrisponde esattamente a quella della metodologia del quadro logico. Le organizzazioni che finanziano i progetti forniscono i propri formulari e le istruzioni per riempirli e richiedono il fedele rispetto dello schema proposto. Ciò facilita il compito del redattore del progetto, garantisce una qualità minima del documento ed evita omissioni importanti; ma nello stesso tempo riproduce il difetto insito nella metodologia del quadro logico, cioè il pericolo di indurre ad una azione meccanica e ripetitiva, povera di attività riflessiva e critica. Il beneficio apportato dall’obbligo di affrontare tutti gli aspetti importanti collegati al progetto può essere parzialmente eroso da una pigrizia mentale indotta dalla facilitazione del compito.
La matrice del quadro logico non produce automaticamente un buon progetto: è solo una cornice, ed è indifferente alla qualità di ciò che vi viene inserito. E tra i quattro criteri di qualità cui i progetti devono rispondere, solo la sostenibilità trova un apposito riquadro nei format, mentre le analisi di pertinenza, fattibilità ed efficienza devono essere inserite nel testo solo grazie alla perizia del redattore. Colore testo

Clear writing flows from clear thinking
La frase in inglese è ripresa da un manuale di John Chikati e rappresenta l’idea base di questo articolo.
La tesi che voglio sostenere è che non è probabile che un progetto possa essere scritto nel modo migliore se la sua stesura non è stata preceduta da una approfondita riflessione sugli elementi comuni a tutti i progetti e su quelli specifici dell'attuale, e che la meditazione debba riguardare un campo più vasto e generale che non la semplice analisi tecnica dell’idea progettuale.Non intendo ripetere tutto ciò che abbondantemente si trova nella letteratura ad hoc, ma solo proporre alcune idee e associazioni provenienti da altri settori del sapere umano. I temi di riflessione che qui accenno sono solamente tre.

Genesi e vita del progetto
La metafora può risultare una via più facile per mettere in luce aspetti non immediatamente visibili. Proviamo quindi a paragonare la genesi, realizzazione e fine di un progetto al concepimento, nascita, crescita e morte di un uomo. E’una metafora elementare, che si può applicare a tantissimi degli avvenimenti che si incontrano in natura.
L’unione di due gameti, provenienti da individui differenti, corrisponde all’incontro tra un bisogno espresso ed una volontà di aiuto, e la cellula fecondata rappresenta l’idea progettuale. La gestazione, durante la quale l’embrione si sviluppa, è la fase di prima stesura ed il parto dà vita alla proposta di progetto. Lo sviluppo da bambino ad adulto rappresenta l’acquisizione delle risorse necessarie e la produzione del definitivo documento di progetto, strumento guida per la sua realizzazione. La fine del progetto si ricollega alla morte, e si può completare la metafora con l’ascesa in paradiso, cioè l’autosufficienza e la sostenibilità della realizzazione, o la discesa all’inferno, cioè la vanificazione e la scomparsa dei risultati prodotti.
La riflessione può essere ampliata pensando ai geni parentali, e come questi siano corresponsabili delle caratteristiche positive e negative del figlio. In modo analogo, la misura delle motivazioni e delle capacità delle organizzazioni che prestano l'aiuto e dei gruppi beneficiari sono fattori che influenzano la qualità dei risultati prodotti.

Gestione per obiettivi
Nel momento in cui si seleziona la strategia dell’intervento di aiuto si stabilisce anche un obiettivo specifico, consistente nella descrizione dello scopo principale che il progetto vuole raggiungere. Per realizzare questo scopo si stabiliscono, assieme ai beneficiari, i risultati concreti da raggiungere con le azioni e le risorse del progetto.
Utilizzando concetti della cosiddetta “gestione per obiettivi”, l’obiettivo specifico diviene un fine ed i risultati sono gli obiettivi cColore testoui si tende. Per definizione, un obiettivo deve essere la traduzione della finalità in un risultato concreto: da una idea immateriale nasce un atto reale, solitamente materiale. Entrambi sono poi in relazione con le azioni: l’obiettivo si pone tra finalità ed azioni per verificare la sua coerenza con il fine perseguito. Azioni -> Obiettivo -> Finalità.
Ricordiamoci, infine, che di solito una finalità si realizza con più di un obiettivo, e che ciascun obiettivo è sempre funzionale a più di uno scopo.
Si può fare un parallelo con obiettivi ge nerali e obiettivi specifici, o ancor meglio con l'obiettivo specifico ed i risultati che concorrono a produrlo, e che sono il risultato delle attività.

Contratto
La terza idea si riferisce al concetto di “contratto”. Contratto è un accordo fissato per iscritto (o anche solo verbalmente) che crea un obbligo tra persone. Ma si può fare un contratto anche con se stesso, in un senso più vasto.
Nel progetto l’idea di un contratto è associata ad ogni attività. Il contratto può essere con se stesso o con i partner o i donatori o qualsiasi portatore di interesse, beneficiari compresi.
Se pensiamo al contratto che è legato ad ogni attività, ci appare più evidente che ognuna ha i sui obblighi, i suoi costi ed i suoi “profitti”: ne uscirà rafforzala la chiarezza su “chi, come, quando” svolgerà l’attività.

[1] Javier Schunk, in tema di aiuto esterno, definisce di “emergenza” l’aiuto esterno laddove esiste una situazione pericolosa davanti alla quale bisogna organizzare in tempi strettissimi l’invio dei cosiddetti aiuti umanitari; di “ricostruzione” l’intervento di aiuto esterno atto a ripristinare le condizioni di autonomia vigenti in un sistema prima dell’avvenimento della situazione pubblica pericolosa che ha generato un precedente aiuto di emergenza; e di “assistenza” l’intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo per un periodo ti tempo alcuni bisogni con l’apporto di elementi esterni al sistema che non è in grado di procurarsi in maniera autonoma né prima né durante né dopo l’intervento esterno.
[2] Ancora Javier Schunk definisce l'aiuto allo “sviluppo” come intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni al sistema: transfert unidirezionale basato su una idea di sviluppo pre-definita basata sul concetto occidentale di benessere”; e l’aiuto allo “auto-sviluppo” come intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni al sistema. Transfert bidirezionale con un’idea di sviluppo mediata fra gli attori dell’azione: ponte culturale. L’assistenza sostenibile intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo indefinitamente alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni che il sistema non è in grado di procurarsi in maniera autonoma né prima, né durante né dopo l’intervento esterno; la differenza con l’assistenza risiede nel fatto che l’esterno va fatto rientrare all’interno del Sistema.



domenica 1 marzo 2009

Non si può imparare parlando.

Cinque anni fa ero in un paese dell’Africa equatoriale e facevo parte di un gruppo di lavoro interministeriale costituito per predisporre le richieste da avanzare ad una delegazione estera che sarebbe venuta a breve. Nell’occasione ho imparato alcune cose nuove sul modo di comportarsi dei burocrati africani quando partecipano ad una riunione ufficiale. Ovviamente mi riferisco ad uno specifico Paese e ad una data epoca, ma credo che molte delle cose osservate siano collegate ad una cultura dominante in un ambito spazio-temporale molto più ampio.
Il ricordo più forte è la percezione del bisogno, comune a tutti i membri del gruppo, di “accreditarsi” come persone sagge ed autorevoli. La concretezza del lavoro e la soluzione dei problemi apparivano molto meno importanti della figura fatta da ciascuno dei presenti agli occhi degli altri; su questo c’era l’accettazione implicita di tutti ed era evidente un compromesso generale sul fatto di consentirsi reciprocamente la tutela prioritaria della propria immagine e dignità.
Ho quindi scoperto una serie di regole che lì erano molto più importanti e vincolanti che non in situazioni analoghe in Europa.
Nessuno poteva essere interrotto quando parlava, neanche per chiedere chiarimenti; sembrava fosse un problema dei rispetto dell’altrui dignità, come se solo un “superiore” potesse interrompere il sottoposto, e mai viceversa; quindi, inter pares, l’intromissione poteva creare una definizione di ruolo percepibile come offesa alla dignità dell’altro.
Il tempo non aveva molto valore: bisognava far passare la giornata ed uscirne con un’immagine positiva di se stessi, a prescindere da cosa sarebbe derivato concretamente dalla riunione. E questo si legava a due aspetti particolari di quella cultura: il futuro non esiste (anziché essere più importante del presente, e quindi rovinarlo, come in Europa); ed il riunirsi a parlare è di per sé stesso il lavoro (a prescindere dalla sua eventuale attuazione in un futuro che, come detto, non esiste).
Tutti dovevano avere la possibilità di recitare il proprio show: la prassi era quindi quella del “giro di tavolo”, anziché della richiesta di parola da parte di chi aveva qualcosa di importante da dire. Questo consentiva anche al più timido e insicuro di offrire la sua opinione, e quindi comparire poi sul verbale della riunione, ma presentava tre grossi inconvenienti: chi non aveva nulla da dire si sentiva comunque costretto ad inventarsi un qualcosa, di solito irrilevante o già noto; gli aspetti più importanti non venivano anticipati e resi basi di discussione, e si perdevano tra altri più fatui; ed infine si sciupava un sacco di tempo anche per argomenti assolutamente banali.
La correzione del verbale della seduta precedente era l’occasione per mettersi in mostra con un proprio contributo al lavoro, quindi tutti intervenivano. Purtroppo raramente c’era qualcosa da modificare nel contenuto o nell’interpretazione del resoconto, quindi le correzioni erano quasi esclusivamente sintattiche e grammaticali. Questo interventi in Europa sarebbero stati degli “autogol”, interpretati come un soffermarsi sulla forma anziché sul contenuto; lì non sembravano avere questo effetto, anzi la correzione del linguaggio sembrava costituire la dimostrazione di una cultura superiore alla media e quindi utile ad aumentare il prestigio della persona.

Quella occasione mi è stata utile per colmare una mia lacuna. Nel mio Paese e negli ambienti che avevo frequentati non esisteva il ruolo di “facilitatore” all’interno dei gruppi di lavoro, composti solo da esperti o parti interessate. Conoscevo il concetto ed il termine sin dagli anni ’80, quando mi ero interessato alle teorie relazionali e neurolinguistiche della cosiddetta “scuola di Palo Alto”, ma non ne avevo mai visto una applicazione concreta. In realtà non c’è stata neanche nella circostanza, e ciò per colpa della mia ignoranza.
Il leader del gruppo, persona di inaspettato valore, mi assegnò il ruolo di “facilitateur”; io capii solo in parte, ed in modo distorto, cosa ci si aspettava da me e mi comportai invece come un vero membro del gruppo di lavoro, che aveva le sue idee e cercava di farle affermare.
Qualche anno dopo ho letto un saggio, di cui purtroppo non ho annotato autore e riferimenti, che mi ha chiarito diversi aspetti dell’attività del facilitatore.
Di quanto appreso mi resta, schematicamente, quanto segue:
- Il facilitatore sa che non si può imparare parlando. Per questo preferisce ascoltare ed osservare il linguaggio del corpo.
- Quando parla lo fa solo per chiedere quali siano i problemi, perché deve capire chi vuole cosa.
- Ascolta le soluzioni proposte: il talento consiste nel comprendere cosa viene espresso e scoprire i collegamenti che ci sono tra le diverse opinioni. Quali delle idee e delle aspirazioni nascoste nei discorsi possono allinearsi tra loro e con le proprie?
- Cerca le sovrapposizioni esistenti: la persuasione è più un’attività di allineamento tra opinioni diverse che non un convincere i più deboli a rinunciare alle proprie idee a favore di quelle altrui.
- Convince sul principio che non ci sia soluzione senza compromesso.
- Propone una soluzione che contenga una parte di ogni interesse individuale.
- Può usare tre principali suggestioni persuasive:
1. l’appropriatezza: quanto si propone è già fatto da altri;
2. la coincidenza tra quanto proposto e le idee ed i desideri dell’altro;
3. l’efficacia delle proposte ai fini di ottenere i risultati voluti.
- L’abilità persuasiva consiste nello scegliere la suggestione adatta al caso presente; per questo l’ascolto è mirato anche a capire quali siano gli interessi primari dei diversi interlocutori l’opinione degli altri, i diversi sentimenti e desideri, l’obiettivo perseguito.
- Il facilitatore inquadra in modo ottimale la problematica: un contrasto d’opinioni diventa un dibattito sulle possibili soluzioni di un problema, la testardaggine diventa persistenza, ecc.
- Tra gente che vede bianco o nero, il facilitatore vede grigio: non parla in termini di vero o falso, giusto o sbagliato o polarità simili, bensì ricorrendo a varie tonalità di “grigio”.
- Può produrre una “nebbia” ponendo domande che creano dubbi, sottolineando la particolarità della situazione e proponendo prospettive ed opzioni nuove. Non ha “sì” o “no”, bensì un ampio spettro di possibilità.
- Cura la chiarezza e la concisione nella comunicazione, ed è pronto ad ammettere i suoi errori.
- Tratta un solo argomento alla volta.

sabato 31 gennaio 2009

Caccia grossa in Africa (... ai donatori)

Nel luglio 2005 in una libreria di Nairobi trovai il volume The Project Proposal Writing Handbook, sottotitolo An Essential Book for Everyone involved in Development, autore John Chikati, edito nell’anno 2000.
Ritenendomi “involved in development” lo acquistai, ma al primo esame non mi sembrò molto interessante e rimase tra i libri da leggere “quando ne avrò tempo”. Solo nel gennaio 2009, crescendo il mio coinvolgimento nella cooperazione, ho ripreso in mano il manuale per studiare realmente le idee del suo autore.
La prima cosa scoperta è stata che il testo era indirizzato alle ONG dei paesi poveri e non a quelle del Nord; da ciò discendeva un’interessante differenza di approccio all’argomento.
La maggior parte delle ONG, ovunque, fonda la sua sopravvivenza sullo scrivere e realizzare progetti, cercando finanziamenti esterni che si spera permettano di realizzare gli obiettivi, ma che in ogni caso raggiungono almeno lo scopo di pagare salari e rimborsi a chi vi lavora. Però le persone delle ONG cosiddette “locali” vivono nelle stesse società dei beneficiari del progetto e appartengono alle stesse etnie, specialmente in Africa; c’è quindi in loro un certo grado di identificazione con le popolazioni assistite, per cui subiscono la pressione, più o meno conscia, a sentirsi loro stessi beneficiari “finali” più che “intermedi”. Questa differenza di atteggiamento psicologico si fa sentire nella concezione e scrittura delle proposte di progetto destinate ai possibili finanziatori e traspare abbastanza chiaramente nei suggerimenti dati dall’autore del manuale.
In alcune esperienze africane ho potuto ravvisare una autentica “caccia” al finanziamento, con lo sponsor nel ruolo di “preda” da catturare con tecniche e trappole perfezionate mediante lo studio del suo modo di pensare e di agire, delle sue abitudini e regole, dei suoi preconcetti e sentimenti.
Credo che questo modo di pensare “africano” dovrebbe essere proficuamente messo al servizio della “buona causa” ed integrato nel patrimonio concettuale di tutti i redattori di progetti, arricchendolo di idee per l’elaborazione di documenti più persuasivi ed efficaci.
A tal fine, la maggiore utilità è ricavabile dalla prima parte – introduttiva – del manuale. La parte successiva tratta di uno schema generale di proposta di progetto utilizzabile quando l’istituzione cui ci si rivolge non impone un suo formato e torna quindi utile solo in questa specifica circostanza.

E’ un fatto che le organizzazioni ottengono maggiori successi quando migliorano la loro capacità di scrivere progetti.
Le proposte di progetto hanno una duplice utilità: sono inizialmente un indispensabile strumento di fund raising e diventano poi una guida pratica per la realizzazione concreta del progetto.
Il progetto è indirizzato ai potenziali finanziatori oltre che ai partner ed ai collaboratori interni. A queste persone deve essere comunicato, con accuratezza e chiarezza, il bisogno identificato ed il piano, disegnato per soddisfarlo, su cui si basa la proposta di progetto.
I primi destinatari del documento sono i potenziali donatori, rappresentati di solito da grandi agenzie statali o internazionali. Queste agenzie hanno fondi limitati e ricevono un gran numero di richieste, per cui le proposte presentate dalle ONG sono in competizione tra loro in una gara per ottenere il miglior giudizio. Chi prepara il progetto deve preoccuparsi di questa concorrenza (Think competitively!) e valutare dove la proposta di progetto è simile o si differenzia da quelle degli altri, e dove si è realmente più forti o più deboli rispetto a loro. Né va dimenticato che le agenzie hanno sempre dei propri criteri per la concessione di fondi e specifiche regole per la ricezione e l’esame delle richieste.
Generalmente i donatori esaminano le organizzazioni richiedenti da tre punti di vista:
1. L’autorevolezza e l’onorabilità della governance, a garanzia che i fondi concessi saranno utilizzati nel modo dovuto;
2. La credibilità dell’organizzazione per quanto riguarda la possibilità di realizzare effettivamente quanto previsto;
3. La capacità di documentare e rendicontare dettagliatamente le attività svolte e l’utilizzazione dei fondi.
Il donatore deve essere convinto che il richiedente rappresenta realmente la buona causa e utilizzerà in modo efficiente il denaro elargito; deve inoltre credere che la sua donazione farà la differenza, anche se in piccola parte.
L’ONG mira a guadagnarsi la fiducia descrivendo dettagliatamente il proprio background:
- La storia, con le date di fondazione e degli eventi più significativi;
- Le realizzazioni più importanti;
- Gli scopi e l’utilità sociale;
- Da chi è composta;
- Chi sono i suoi beneficiari;
- I problemi e le sfide affrontati;
- I programmi e servizi offerti;
- La reputazione in merito a capacità gestionali e business acumen;
- I rapporti con il fisco.
Nel preparare il documento con la proposta di progetto alcuni punti devono ricevere una attenzione particolare:
a) Gli obiettivi perseguiti dal progetto vanno espressi in termini di risultati a breve termine, specifici e misurabili.
b) Il co-finanziamento della ONG e della comunità locale deve essere indicato sia in termini quantitativi che come percentuale del costo complessivo del progetto.
c) Un aspetto spesso sottovalutato è la tempestività nel richiedere i finanziamenti. La regola dice che quanto prima si presenta la domanda meglio è, e ciò non tanto per prendere i “primi posti” tra le tante richieste che pervengono al donatore, quanto per darsi la possibilità di dialogare e chiarire, oltre che di rettificare il documento.
d) La pertinenza va valutata non solo tra problema e progetto, ma anche nei riguardi dell’ente donatore e dell’organizzazione richiedente.
e) E’ molto influente e va quindi cercata ogni possibile correlazione con altre iniziative in corso o pregresse, o anche future.
f) Nel preparare la proposta si deve pensare ai finanziatori. Chi possono essere? Quali speranze e timori possono nutrire? Quali avversioni e bisogni potrebbero avere? Sono donatori “tipici” per quel progetto e per l’organizzazione richiedente, o devono essere “persuasi”?
g) Non basta essere buoni comunicatori per risultare persuasivi. Bisogna essere sostenuti da buone referenze e queste sono soprattutto quelle fornite dai donatori attuali e precedenti, specie se si tratta di enti autorevoli e potenti. Le referenze, di tutti i tipi, vanno espressamente ricercate perché rafforzano la credibilità. Invece non si deve mai ricorrere a referenze negative dei concorrenti, perché si avrebbero delle ricadute negative.
h) Se i possibili donatori hanno propri formulari per le richieste, questi devono essere usati senza eccezioni. Si può personalizzare il documento solo nei limiti concessi o quando il donatore non ha proprie regole. Il progetto deve essere in inglese oppure nella lingua del donatore.
i) Può essere preferibile richiedere finanziamenti a più donatori, con co-partenariati. In tal caso si devono indicare nel piano finanziario tutte le richieste presentate ai diversi donatori. Se si verificano dei “doppi finanziamenti” entrambi gli interessati vanno informati.
l) E’ un noto principio del fund raising che le persone donano a persone perché queste aiutino altre persone bisognose. Le agenzie e gli altri enti donatori non sono entità astratte, senza anima; anzi le persone che vi lavorano sono ben disposte a finanziare progetti di aiuto allo sviluppo. Possono anche essere interpellate per chiarimenti preventivi su regole, formulari, date, lingua da usare (se non si ha risposta, vuol dire che l’agenzia ha poco personale; meglio passare ad altri).
m) Le agenzie hanno bisogno di ricevere buoni progetti proposti da organizzazioni esperte. In questi casi sono i progetti che si affermano da soli e non c’è quindi bisogno di pregare, basta invitare a condividere l’impresa.
n) Le grandi agenzie hanno solitamente, nei paesi poveri, delle ONG di riferimento con cui solitamente operano. E’ importante conoscere i partenariati già esistenti nelle regioni di interesse, così come è bene informarsi presso le organizzazioni simili sulle loro fonti di finanziamento.
o) I donatori seguono sempre delle priorità nelle loro scelte. Di solito vengono favoriti i programmi di sviluppo, formazione e promozione comunitari su piccola scala. Sono anche privilegiati i programmi di sviluppo integrato, nei quali lo sviluppo prende in considerazione tutti gli aspetti della vita.
p) I donatori preferiscono affidarsi alle ONG con cui hanno già lavorato e di cui si fidano (partner tradizionali). Quindi è meglio per una ONG presentare richieste a chi le ha già finanziato progetti in precedenza.
q) Il miglior approccio ad un donatore è tramite richiesta di un appuntamento; la mediazione di un amico è utile ma non indispensabile. Si può anche chiedere per telefono quale sia la persona più appropriata per un colloquio personale. Invece non è bene anticipare dettagli per telefono, a meno di esplicita richiesta.

Perché c’è chi non ha mai avuto progetti finanziati dalla cooperazione internazionale? Possono esserci tre motivi:
1) Non ha mai fatto richieste.
2) Le sue richieste non erano fatte in modo corretto.
3) Ha rinunciato troppo presto.
Può capitare che un buon progetto, presentato nel modo corretto all’agenzia giusta, non sia finanziato al primo colpo. Quel che va fatto è: Keep trying! Alla fine gli sforzi potrebbero essere ricompensati.
Costruire un buon progetto, prepararne una buona presentazione (clear writing flows from clear thinking) e poi fornirgli un supporto adeguato, tutto ciò richiede molto tempo ed energia.

domenica 28 dicembre 2008

Testi brevi

Alcune idee per la redazione di relazioni, comunicati stampa e pagine WEB.[1]


Premesse.
Chi scrive un testo breve da pubblicare su giornali o pagine WEB sa bene che il lettore non lo esaminerà nello stessa maniera con cui legge i libri o il suo materiale di studio.
E’ possibile che non abbia un reale interesse per il testo e che lo legga solo per la curiosità suscitata dal titolo; in tal farà una lettura frettolosa, a salti, cercando le informazioni principali o quello che lo riguarda direttamente. Ignorerà le parti tecniche, che non gli sono familiari, e tenderà a concentrare l’attenzione sul paragrafo iniziale e sull’ultimo; è probabile che si soffermi un po’ di più sugli argomenti introdotti da un sottotitolo.
Alla fine il lettore ricorderà solamente quelle parti del testo con contenuti facili ed inequivocabili, oppure quelle che più l’hanno colpito per la loro novità o eccentricità o concordanza con le sue idee, oppure per lo stile ed il linguaggio usato.
Di solito i testi brevi hanno un duplice scopo: trasmettere al lettore delle informazioni e spingerlo ad aderire alle idee dell’autore, correggendo alcuni dei precedenti atteggiamenti. Un testo va giudicato più o meno efficace, e quindi “buono”, nella misura in cui raggiunge questi fini.
Da quanto sopra nascono due riflessioni. La prima è che la comunicazione scritta deve rispettare alcune regole pratiche, pur senza pregiudicare la sua spontaneità ed immediatezza. La seconda è che l’autore, prima di scrivere, deve dedicare un po’ di tempo a riflettere sulle finalità per cui scrive, su come elaborare i contenuti, e su come pianificare formato e stile del testo, in funzione del lettore a cui è rivolto.

Lavoro di preparazione.
L’efficacia della nostra comunicazione aumenta se prima ci si chiede quali obiettivi vogliamo raggiungere.
Se non ci è chiaro quello che vogliamo, sarà difficile ottenerlo; invece un obiettivo ben identificato ci spinge a riflettere su cosa è più utile per raggiungerlo e quanto invece va evitato perché inefficace o addirittura controproducente.
Una buona tecnica per la preparazione di un testo consiste nel sedersi al tavolo, prendere un foglio bianco, intestarlo con un titolo provvisorio e subito sotto inserire il sottotitolo “Obiettivi”; se ne fa quindi l’elenco scritto e alla fine li si riordina per importanza.
Conviene porsi la domanda: “Cosa resterà nella mente di chi legge il testo? Cosa cambierà nel suo comportamento o atteggiamento?” Questo aiuta a fissare gli obiettivi della successiva fase di stesura.

Una volta elencati gli obiettivi mettiamo il sottotitolo “Destinatari”, sotto cui annotiamo le categorie dei futuri lettori; anche queste le riordiniamo per importanza.
La comunicazione tra persone ha dei passaggi obbligati. Chi parla o scrive traduce il suo pensiero in parole e frasi, che chi ascolta o legge ritraduce nel proprio linguaggio, costruendoci sopra un suo pensiero.
Questa ricostruzione del significato determina il risultato della comunicazione: non importa cosa si voleva dire con quelle parole e frasi, ciò che si ottiene dipende da come il ricevente le ha interpretate nella sua mente. Per questo può convenire, potendo, esprimersi nell’ idioma dell’altro, che probabilmente “traduce” meglio la sua lingua che la nostra. Ma anche tra chi parla la stessa lingua le parole e la costruzione delle frasi possono essere interpretate in modo non identico per differenze di cultura ed esperienza tra gli interlocutori.
Quando si parla frontalmente, il tono, l’espressione ed il contesto contribuiscono molto alla corretta interpretazione del messaggio; nello scritto questi aiuti mancano, ed è per questo che di solito si scrive in modo un po’ diverso da come si parla.
Fermarci a pensare alle caratteristiche dei destinatari del nostro scritto ci aiuta a scegliere gli argomenti ed il linguaggio più opportuni per l’obiettivo voluto, migliorando quindi l’efficacia del testo.

Elaborazione.
Riflettuto su obiettivi e destinatari, viene l’ora di lavorare sugli “Argomenti”, terzo sottotitolo sul nostro foglio.
Questo lavoro prevederà diverse fasi.
Si comincia con l’elencare tutto ciò che potremmo dire sul tema trattato. Questo va fatto rapidamente, senza essere selettivi, con fantasia: in pratica è un “brainstorming” fatto da soli.
Gli argomenti derivano dagli obiettivi che ci siamo posti, ma non va dimenticata la domanda “Cosa vorrebbero sapere i lettori?” Essi non possono chiederci chiarimenti, quindi le domande più probabili vanno anticipate. E chiediamoci anche “Cosa non interessa ai lettori?” per eliminare o ridurre al minimo gli argomenti che interessano solo a noi.
Per l’ideazione e l’organizzazione degli argomenti Phillip Bozek propone due tecniche che chiama “brainstorming a grappolo” e “brainstorming a sezioni”. Esse possono essere integrate tra loro e conviene farlo, quando possibile.
Il “brainstorming a grappolo” consiste nello scrivere al centro di un foglio l’argomento principale e poi cerchiarlo. Da questo cerchio si fanno partire linee di diramazione dirette ad altri cerchi contenenti le idee secondarie, ciascuna cerchiata e a sua volta origine di altre idee: così si forma un “grappolo” di argomenti interrelati tra loro e con il tema principale.
Le prime diramazioni possono essere generate pensando alle famose sei parole-chiave del giornalista: chi, cosa, quando, dove, come, perché. Possiamo aggiungere una settima diramazione per le azioni che sono richieste.
Una volta riempito il foglio con tutto ciò di cui si vuole parlare, si ha il materiale necessario per scrivere il testo, raggruppato in un modo che è allo stesso tempo ordinato e disordinato.
Il “brainstorming a sezioni”, adatto a testi più lunghi, consiste nello scrivere in fogli diversi i titoli dei diversi argomenti in cui si vuole articolare l’esposizione; ciascuno di questi titoli diventa argomento principale di un “brainstorming a grappolo” che lo sviluppa completamente. Va da sé che i titoli di queste sezioni sono prodotti con la tecnica del “brainstorming a grappolo”, eventualmente aggiungendo poi due sezioni per il sommario e per le azioni richieste.
Nel “brainstorming a sezioni” non ha importanza seguire un ordine nel lavorare sui diversi fogli, si può saltare dall’uno all’altro man mano che vengono delle idee; tanto tutto sarà poi rielaborato in fase di riorganizzazione del testo.


Finita la parte creativa, inizia quella organizzativa, che prevede che il testo sia impaginato in modo da facilitare il rapido recepimento del messaggio.
Nella “Organizzazione del testo” le cose principali devono essere messe all’inizio ed alla fine: c’è sempre il pericolo che siano le sole parti ad essere lette. Quindi conviene seguire queste regole:
L’intestazione deve spiegare l’argomento con frasi che siano complete ed esaustive;
Il primo paragrafo (o l’ultimo) contiene una sintesi, che è scritta con un linguaggio molto semplice e non specialistico;
Nell’ultimo paragrafo (o nel primo) viene indicato cosa si vuole che il lettore faccia.
Lungo tutto il testo compaiono dei sottotitoli che distinguono le diverse sezioni del documento, facilitando la lettura rapida.
Quando possibile, può convenire attenersi ad un “format” prestabilito, specialmente per i testi più brevi e che richiedano una risposta od altra azione del lettore.

Il quinto passo del lavoro possiamo chiamarlo “Nero su bianco” perché, finalmente, si butta giù la prima stesura di quello che sarà il testo finale.
Anche in questa fase vi sono alcuni accorgimenti da seguire.
Primo: non interrompersi per migliorare il linguaggio; per questo ci sarà tempo in seguito, durante la revisione. Meglio andare avanti senza interrompere il flusso del pensiero.
Alcune tecniche facilitano il lavoro, e sono:
Utilizzare uno schema di riferimento (format);
Evitare di fermarsi per rileggere quanto scritto, anzi cercare di non guardare lo schermo del computer, se lo stiamo usando;
Non correggere subito eventuali errori di grammatica o di sintassi;
Se si resta bloccati, risistemare le idee con la tecnica del grappolo, oppure immaginare di dover spiegare a voce ad un amico tutto il concetto: “L’idea è molto semplice: ciò che intendo è che …”;
Concentrarsi, anche con musica di sottofondo, e ritagliarsi spazi in cui non si è interrotti: luogo appartato ed orari ben scelti, possibilmente fissi.

Revisione.
La fase finale è quella della “Revisione”.
Il lavoro di revisione và fatto in più tempi, concentrandosi ogni volta su un aspetto diverso; sono quindi necessarie tre distinte revisioni: quella dell’aspetto generale, quella dello stile e quella dei dettagli.
L’aspetto generale riguarda sia il contenuto globale e la struttura generale, sia l’impatto visivo del testo: grandezza dei margini, spaziatura tra parole e paragrafi, carattere, suddivisione tra argomenti. Se il testo sembra difficile da leggere ha più probabilità di non essere letto affatto.
Il titolo generale non deve essere troppo generico; la formula migliore è: titolo = scopo + argomento principale.
La separazione spaziale deve facilitare la distinzione tra le idee, e quelle principali dovrebbero essere subito identificabili.
La lettura è facilitata se:
I periodi sono brevi;
Le informazioni sono suddivise in punti;
Le righe sono corte ed i margini sono ampi, specialmente quello di sinistra.
L’uso dei titoli aiuta il lettore a selezionare quello che più gli interessa e così gli permette di stabilire le priorità di lettura. Con i titoli egli individua le idee principali, le ritrova subito nelle letture successive e può concentrarsi in modo variabile sulle diverse parti del documento.
Lo stile va rifinito dai punti di vista della semplicità, della chiarezza e della pertinenza del testo.
Spesso il lettore non ha molto tempo e quindi gradisce un linguaggio chiaro, semplice e conciso. Per ottenerlo è consigliabile:
Concentrarsi su ciò che il lettore vuole sapere e non su quello che piace a noi; eliminare le idee non strettamente necessarie;
Puntare sull’esprimere dei concetti piuttosto che su una forma colta e raffinata;
Immaginare che il lettore abbia 12 anni; rendere quindi tutto il più semplice possibile, evitando le parole e le espressioni da specialisti;
Cercare frasi brevi ed incisive; ricordiamoci che i proverbi sanno esprimere il massimo di significato con un minimo di parole.
Evitare, quando possibile, le parole lunghe;
Ridurre le forme impersonali e l’uso del “ci” del “c’è”; cerchiamo di ricorrere alla semplice formula: soggetto – verbo - complemento.
E’ sempre opportuno cercare il commento di altre persone su ciò che abbiamo scritto; il fatto di sapere cosa vogliamo dire può farci apparire chiaro ciò che per gli altri non lo è affatto. E’ ovvio che il commentatore deve essere in una posizione personale che gli permetta di essere sincero.
Infine, la revisione dei dettagli riguarda la grammatica, la sintassi e la punteggiatura.
Questa revisione sarà l’ultima, così non si sarà perso tempo su frasi poi eliminate. Qui i consigli di terzi sono particolarmente utili perché è più facile per chi legge per la prima volta scoprire nel testo errori, inesattezze e punti deboli.

Presentazioni

Alcuni consigli per le presentazioni in pubblico.
Liberamente rielaborato da: P. E. Bozek, “Comunicare con efficacia”, Franco Angeli, Milano, 4° Ed. 1996

La prima impressione
Nell’incontro tra persone sconosciute la prima impressione è quella che conta di più perché essa influenzerà i giudizi successivi.
Pertanto, in una presentazione è molto importante che l’introduzione sia interessante e ad effetto per suscitare un’impressione favorevole.

Evidenziare i vantaggi
Per procurarsi l’interesse dell’uditorio ci si può porre la domanda “Perché mi dovrebbero ascoltare? Cosa ci guadagnano?” La risposta suggerirà come iniziare la presentazione.
L’argomento buono non è sempre facile da trovare. Bisogna indovinare quali possano essere i maggiori interessi del pubblico in quel momento.

Ottenere credibilità
Risvegliato l’interesse con la suggestione adatta o con una trovata ad effetto, ci si deve poi dimostrare credibili ed autorevoli.
Un modo efficace consiste nell’ esporre molto rapidamente tutta una serie di “casi specifici”: nomi, fatti, esempi, statistiche, storie, analogie, e così via.
L’elencazione veloce di molti elementi è di solito più utile della trattazione approfondita di pochi esempi dettagliati. Una sequenza rapida di casi ha fa pensare che su ciascuno di essi si saprebbe andare molto più a fondo e che quanto sostenuto sia universalmente accettato.

Essere preparati
L’effetto migliore è dato da un’ampia panoramica o da una carrellata di casi specifici, uno dei quali viene poi ripreso e sviscerato in profondità: l’audience tenderà a pensare che l’oratore possa parlare allo stesso modo di tutti gli altri casi e quindi gli attribuirà una buona preparazione sulla materia.
Ma questa tecnica non deve ridursi ad un gettar fumo negli occhi: bisogna essere sufficientemente padroni della materia ed aver ben preparato l’argomento della presentazione.

Organizzare il discorso
Organizzare il discorso in punti distinti ma collegati ne facilita il ricordo e la comprensione della sua logica[1].
C’è una ricetta già pronta che prevede una sequenza di quattro fasi:
1. Un’introduzione che dichiara, in una ventina di parole, l’argomento o la tesi che l’oratore sta per spiegare, preceduta da una frase-richiamo (Il prossimo punto è …; un altro problema da affrontare consiste in …);
2. L’elencazione delle migliori prove specifiche a sostegno della tesi sostenuta: racconti, statistiche, aneddoti, citazioni, in rapida sequenza. Anche qui si inizia con una frase-richiamo (Vorrei fare alcuni esempi …);
3. La ripetizione del punto principale per ricollegarlo alle prove elencate, con una nuova frase-richiamo (Per riassumere …; Perciò …).
4. La chiusura con una frase di collegamento che avverte del passaggio al punto successivo della presentazione(Passiamo ora a …; Quanto detto conduce al punto successivo …) .

La conclusione
Al pari dell’introduzione, la conclusione della presentazione è un momento critico: deve ottenere lo schieramento dell’audience dalla parte dell’oratore.
Il modo migliore consiste nel riassumere i punti e poi trarre le conclusioni.
Finita l’esposizione degli argomenti, nascerà la domanda “E quindi?”; la risposta che daremo sarà concreta, propositiva, coinvolgente ed ottimista.
E’ bene che nella conclusione siano inseriti dei chiari riferimenti a:
Una sfida da affrontare
La fiducia nel successo
La previsione di un futuro migliore
L’impegno personale dell’oratore
Il coinvolgimento degli ascoltatori
Il discorso sarà il più possibile personalizzato, con l’uso dei pronomi: io, noi, voi, il mio, il nostro, il vostro.
L’ultimissima parola dovrà sempre essere un sostantivo od un aggettivo molto positivo.

La presentazione improvvisata
Può capitare di dover parlare all’improvviso, senza alcuna preparazione.
In tal caso il modo più semplice per far fronte all’imprevisto consiste nel formulare (o sollecitare) domande specifiche cui poter dare delle risposte.
Le domande possono essere sulla tematica in generale, su suoi aspetti particolari, sulla genesi dei problemi, sulle azioni possibili, su tempi e modi, e simili.
Con tre domande si può creare un campo circoscritto ma sufficientemente ampio per un intervento esauriente.
L’organizzare di un discorso improvvisato può consistere in:
Citazione dell’argomento
Formulazione di tre domande
Risposte a ciascuna delle tre domande
Ritorno all’argomento con un riassunto.

La comunicazione non verbale
La maggior parte del significato di un messaggio orale viene data dal linguaggio non verbale: gesti, espressioni del viso, sguardi, movimenti nello spazio, inflessioni vocali. Persino il modo di vestire può incidere sul significato della comunicazione .
Anche se ci piace la spontaneità, dovremmo conoscere le particolarità della nostra comunicazione non verbale ed eventualmente saperla adattare ad una presentazione.

La gestualità
Per migliorare la comunicazione può risultare molto efficace il mimare intenzionalmente certe parti del discorso, come in un gioco.
Ci si dovrebbe esercitare mimando in silenzio certe frasi, e poi aggiungere le parole conservando le gestualità della pantomima.
Parole come mio, voi, noi, prima, dopo, pensare, sentire, successo, delusione, inclusione, frammentazione e moltissime altre possono essere sottolineate con gesti evocativi coscienti e volontari.
Nelle presentazioni si deve fare ampio uso delle possibilità mimiche. Le idee vanno espresse servendosi sia delle parole che del corpo.

Gli spostamenti nella sala
Le presentazioni sono organizzate dall’oratore in strutture pre-determinate: fasi, punti, suddivisioni, sequenze … .
Il procedere del discorso all’interno delle strutture viene meglio percepito se scandito visivamente da spostamenti dell’oratore in diversi punti della sala.
Se, per esempio, una introduzione è suddivisa in quattro punti (saluto e annuncio dell’argomento; esperienza dell’oratore nel campo specifico; spiegazione dei vantaggi per chi ascolta; e panoramica dei punti principali del discorso) è bene iniziare il discorso da una certa posizione e poi spostarsi nella sala ogni volta che si passa da un punto all’altro.
Non bisogna muoversi inutilmente: ogni spostamento deve essere abbinato alla struttura del discorso e possibilmente in sintonia con ciò che si sta dicendo.
Ad esempio, si può andare tra gli ascoltatori per interagire con loro; avvicinarsi al pubblico nella fase conclusiva; camminare quando si racconta una storia; accostarsi alla lavagna quando si riassume.

Lo sguardo
Guardare negli occhi una persona è uno dei modi migliori per mantenere desta la sua attenzione.
Al contrario, leggere o guardare i lucidi o comunque non incrociare lo sguardo con il pubblico può trasmettere una sensazione di insicurezza o sfiducia nelle proprie idee.
Guardare solo alcune persone ed ignorarne altre può addirittura favorire in queste ultime l’insorgenza di sentimenti ostili all’oratore. Bisogna cercare di guardare tutti, comprese le persone agli angoli della sala, e non solo quelli al centro della prima fila.
Guardare in viso gli ascoltatori serve anche a osservarne le reazioni e quindi potersi correggere, se necessario. Bisogna comunicare con il pubblico e non al pubblico.
Per concentrarsi sulle reazioni dell’audience poniamoci domande che li riguardano: “Chi è il più addormentato?” “ Chi sembra apprezzare di più le mie parole?” “Chi può aver bisogno di ulteriori informazioni?”
Ci si può allenare a soffermare lo sguardo su tutti i presenti, ponendosi domande che li riguardano, anche in riunioni in cui è un altro a parlare. E’ utile pensare anche a come li si guarda e per quanto tempo. E’così che poi dovremmo guardare il pubblico quando saremo noi a parlare.

Il tono della voce
Bisogna evitare di essere mono-tono. La voce deve avere una intonazione musicale, con alti e bassi che si susseguono.
Il modo per sentire la propria inColore testotonazione consiste nel provare a dire le frasi senza aprire la bocca. Se la linea del suono è piatta, con un rialzo alla fine, si è monotoni.
Come modelli da imitare vanno presi gli annunciatori televisivi o radiofonici. Và ascoltata la loro musicalità e, per esercitarsi, si dovrebbero ripetere ad alta voce le loro frasi, imitandoli.

I riferimenti visivi
Lavagne o proiezioni su schermo facilitano la comprensione e migliorano l’attenzione del pubblico.
L’argomento principale dovrebbe restare sempre visibile, mentre i vari punti vengono sostituiti con il procedere del discorso.
I titoli dei punti secondari rispetteranno il linguaggio usato nell’argomento principale; lo spessore delle scritte sarà diverso a seconda dell’ importanza.

Integrazione tra immagine e discorso
Ciò che si dice e ciò che si mostra devono essere sempre in sintonia, in collaborazione e non in competizione.
Si deve mostrare solo ciò di cui si sta parlando; e se sono presenti delle parole, esse vanno ripetute così come sono, senza sostituirle con parafrasi.
L’immagine deve comparire nel momento esatto in cui si comincia a parlarne, e quando non se ne parla più, l’immagine va tolta.
Poiché l’audience dovrebbe seguire passo a passo, possono risultare utili alcune tecniche, quali:
- Costruire l’informazione poco alla volta, usando immagini in sequenza che si sovrappongono man mano.
- Leggere ad alta voce ciò che compare nell’immagine.
- Mostrare l’immagine e poi restare in silenzio per alcuni secondi in attesa che il pubblico l’assimili e poi iniziare a parlarne.

Uso delle domande
Coinvolgere gli ascoltatori con delle domande è molto produttivo, a patto che essi abbiano una risposta. Per questo esse devono essere aperte (Cosa proponete voi per …? Come interpretate …?); quelle a risposta unica scoraggiano l’interazione.
Le domande vanno poste l’una alla volta e si deve lasciare un tempo sufficiente a rispondere (almeno 5 secondi, ma anche più).

Risposte alle domande dell’audience
La parola d’ordine è “concisione”: la domanda di uno prende il tempo di tutti, quindi dilungarsi nella risposta può risultare irritante per molti dei presenti.
Si può immaginare di essere in un ascensore e di dover rispondere prima che l’altro scenda, quindi in una quindicina di secondi.
Un’altra cosa importante è il “sostegno”: non si può assolutamente provocare umiliazione o risentimento in chi ha posto una domanda.

Domande multiple
Se si ricevono domande complesse, composte di più argomenti, esse vanno gestite con accortezza. Il modo più semplice è quello di rispondere solo alla prima parte della domanda e poi proseguire chiedendo “Quale era la seconda domanda?”

Risposte complesse
Se le risposte sono complesse ed articolate, ci possono essere difficoltà nel seguirle ed apprezzarle; serve quindi una metodologia ben precisa:
1. Ripetizione della domanda. Si fa ad uso degli ascoltatori che non l’hanno ben sentita o compresa e per controllarla con chi l’ha posta. Se è troppo lunga la si deve riassumere. Se non è chiara la si deve riformulare.
2. Risposta. Breve e gentile, usando non più di una trentina di parole.
3. Prove o esempi. La risposta deve essere supportata in modo rapido e conciso.
4. Sommario della risposta. Nel riassumere, si ripete rapidamente la domanda.
5. Tempo previsto. Anche nelle risposte complesse bisogna essere sintetici. Non si dovrebbe superare il minuto.
6. Risposta esauriente? Si deve chiedere se si è risposto alla domanda. Nelle ulteriori precisazioni bisognerà divenire sempre più sintetici.
[1] Per ricordare l’organizzazione del discorso torna utile la tecnica dei “loci” di ciceroniana memoria.

martedì 23 dicembre 2008

Il vizio della loquacità

Plutarco sul parlare

Per Paolo Marsich, traduttore e curatore della raccolta di scritti di Plutarco "Per un parlare efficace"
[1], oggi la comunicazione non sarebbe più un "parlare" bensì un "esternare".
I modelli televisivi dei talk-show e dei reality-show avrebbero diffuso il comportamento impulsivo ed un po’ arrogante di commentare tutto e subito, anche senza possedere le necessarie conoscenze né la riflessione ed il rispetto del pensiero altrui.
I modelli audiovisivi rendono “reale” solo ciò che è esternato nei media con linguaggio e modi ormai tipici. Molti, influenzati da questi modelli, si sono quindi abituati a raccontare gli altri qualsiasi evento anche insignificante o intimo della loro vita, senza neanche curarsi dell’attenzione o dell’interesse dell’ascoltatore.
Questa tendenza a parlare troppo e ad avere sempre una parola pronta su ogni argomento è stato a suo tempo criticato e ridicolizzato da Plutarco in alcuni brani della sua raccolta Moralia. Vissuto tra il I e il II secolo dopo Cristo, Plutarco è soprattutto noto per la sua opera Vite parallele in cui si dimostra ottimo studioso e conoscitore degli uomini ("non scriviamo storie, ma vite"). Nel De garrulitate parla del vizio della loquacità per proporre un esame ed un controllo del proprio comportamento verbale.
L'autore greco parte dall’idea che prima di parlare bisogna saper ascoltare.
Per Plutarco l'ascolto è un'arte che può appresa e poi perfezionata; esso deve diventare un metodo per arricchirsi interiormente, per conoscere la natura umana e se stessi e quindi correggere i propri limiti e difetti.
Nella capacità di ascolto vede la possibilità di riconoscere i meriti altrui, con umiltà; ma anche il pericolo, per i semplici, dell'ammirazione smisurata od opportunistica e quindi della caduta nell'adulazione e nella falsità.
L’autore si sofferma a lungo sul comportamento adulatorio, su come riconoscerlo e come difendersene; ad esso contrappone la schiettezza, che però deve essere opportunamente controllata e modulata dal rispetto dell'altro per non dar luogo a reazioni ostili. Per questo arriva anche ad approvare l’uso di vere tecniche manipolatorie, usate a fin di bene.
Particolarmente interessante è l'analisi dei rapporti con gli avversari e la proposta di trarre dei vantaggi dalle proprie inimicizie.
Plutarco mette in evidenza come questi vantaggi consistano, in dettaglio, nello sviluppare l'autocontrollo per non reagire emotivamente gli attacchi (ciò darebbe agli avversari una forza altrimenti inesistente); nel fortificarsi nel confronto con situazioni conflittuali; nello imparare ed imitare i modi leciti con cui gli avversari hanno acquisito il potere attuale; nel riconoscere in sé stesso i punti deboli sfruttabili dall'avversario per i suoi attacchi; nello eliminare da sé quei difetti che critichiamo nell'altro; nello sviluppare una circospezione che previene i comportamenti attaccabili perché sbagliati o perché tali possono sembrare.
Paolo Marsich sostiene l'attualità dei consigli di Plutarco ed evidenzia come i vizi sotto accusa – ed in particolare la mancanza di dissenso - siano favoriti dal modello sociale oggi dominante: "La tendenza a reprimere l'osservazione critica e costruttiva sembra essere un tratto tipico delle relazioni sociali odierne, spesso basate sulla compiacenza a ogni costo e sulla rimozione di ogni comportamento sgradevole o doloroso, quale invece la verità spesso comporta."

Il primo argomento trattato nel libro si riferisce al controllo della parola e si parte dal vizio della loquacità (De garrulitate), difficile da curare perché accompagnato dal non ascolto dei consigli altrui.
All'origine di questa incapacità di tacere ci sarebbe infatti l'incapacità di ascoltare: "Negli uomini troppo loquaci l'orecchio non è collegato con la mente bensì con la lingua."
L'eccessiva loquacità è un vero vizio perché, oltre ad essere incontrollabile, va addirittura contro gli scopi di chi ne è affetto. Infatti chi parla troppo lo fa per auto affermarsi e per indurre gli altri a stimarlo, ma in realtà difficilmente trova chi sia disposto ad ascoltarlo ed a prestargli fiducia. Mentre discrezione e silenzio suscitano approvazione, di solito la loquacità non è apprezzata e spesso porta brutte conseguenze.
Anche quando si è sollecitati da una domanda, il come si risponde non è privo di pericoli. Vi sono tre modi per rispondere: limitarsi allo stretto necessario, dare una risposta cortese con sufficienti spiegazioni e dare una risposta eccessiva. Il terzo modo è sempre sbagliato, gli altri due vanno adeguati alle esigenze dell’interpellante.

Dalla sobrietà nel parlare si passa all’argomento dell’imparare ad ascoltare (De recta ratione audiendi).
Dice Plutarco che noi non siamo abituati ad essere ben predisposti verso chi parla né a focalizzare l'attenzione per non perdere nulla di quanto detto. Sostiene poi che anche il modo di porsi, mentre si ascolta, è soggetto al rispetto di certe regole di educazione.
Il corpo deve assumere una postura corretta, e lo sguardo va rivolto su chi parla, con atteggiamento d’interesse ed una espressione del viso rilassata.
Il silenzio è il comportamento più decoroso e prudente e anche quando l’interlocutore ha concluso conviene aspettare prima di replicare, per dar modo all'altro di aggiungere, modificare o ritrattare le proprie affermazioni.
Ascoltare è come essere ospite a pranzo: il buon ospite mangia quel che gli viene portato e non chiede altro. Così bisogna ascoltare quanto viene proposto e non cercare di condurre l’interlocutore su altri argomenti.
Le domande devono essere pertinenti ed utili al discorso, mai irrilevanti. Inoltre si deve restare nell’ambito delle competenze dell’altro: chiedergli cose su cui non è esperto può creargli imbarazzo e si perde l'occasione di ricevere il meglio di quanto può offrire, oltre al rischio di apparire malevoli ed odiosi.
L'invidia è un pericolo per l'ascolto, così come la presunzione: entrambe spingono a contestare gli argomenti anche quando non si sarebbe capaci di proporre argomentazioni migliori. A tale proposito Plutarco offre l’aneddoto di uno spartano che, venuto a sapere che il re Filippo aveva distrutto la città di Olinto, aveva commentato: “Lui però non sarebbe in grado di edificarne una simile”.
Il comportamento opposto di “eccessiva ammirazione” è anch’esso pericoloso e forse ancor di più; se un atteggiamento sprezzante ed arrogante non fa trarre vantaggi dai discorsi ascoltati, chi è ingenuo e pieno di ammirazione rischia di subire un vero e proprio danno assorbendo eventuali idee sbagliate o dannose.
L’ascoltatore dovrebbe passar sopra alla forma del discorso ed alla personalità di chi parla per immergersi nei contenuti del discorso e nelle reali intenzioni dell’altro, trattenendo solo gli aspetti proficui di quanto sentito.
Se quanto ascoltiamo costituisce una critica delle nostre idee o comportamenti, dobbiamo diventare capaci di accettarlo senza lamentele e senza assumere atteggiamenti impassibili o assenti o addirittura irridenti.
L’ascolto dell’altro deve essere finalizzato anche a conoscere sé stessi. Chi è sveglio ed attento impara ascoltando non solo discorsi riusciti, ma anche quelli falliti: ciò che è sbagliato viene riconosciuto più facilmente nei discorsi altrui che nei propri.
Ha poco senso biasimare gli altri se questo non ci serve a vedere e correggere i nostri difetti simili. Dai discorsi altrui possiamo riconoscere il nostro modo di fare ed imparare a curare di più quello che diciamo.

I successivi argomenti riguardano lo smascherare le falsità e l’uso della schiettezza (De differentia veri amici et adulatoris).
Per riconoscere le bugie degli adulatori basta osservare la loro continua compiacenza nei confronti dei nostri comportamenti e discorsi, anche quando questi sono volutamente incostanti e contraddittori.
La mancanza di dissenso è sospetta, così come lo è un rapporto basato sulla ininterrotta condivisione e compiacenza, sulla mancanza totale di contrasti e su una piena affinità.
Plutarco distingue tra l’elogio adulatorio di una singola azione e quello dei comportamenti caratteristici della persona.
Secondo lui chi elogia una cattiva azione od un discorso sbagliato danneggia l‘altro in quella specifica occasione; ma coloro che si spingono a lodare i difetti di carattere sono molto più dannosi (“come servi che rubano non il raccolto ma la semina”) perché descrivendo come virtù ciò che è male, peggiorano l’animo ed i comportamenti abitudinari della persona, quindi il suo “seme”.
Il danno provocato dalla distorsione della realtà fisica è rimediabile perché l’inganno prima o poi sarà scoperto, ma la distorsione del giudizio morale ha conseguenze molto più gravi perché fa apparire come un bene ciò che invece condurrà alla rovina.
In ogni persona c’è una parte razionale ed una istintiva; la prima tende alla verità ed al bene, la seconda è spesso dannosa. L’amico vero si riconosce perché parla sempre alla parte migliore, mentre l’adulatore si rivolge a quella irrazionale e passionale. Un amico “nacque per condividere la saggezza, non per soffrire della stessa malattia”.
La difesa dai danni dell’adulazione richiede la lotta a due difetti: l’auto compiacimento e la presunzione.
Il “conosci te stesso” deve spingerci a vedere quanto la nostra natura, la nostra educazione e la nostra cultura siano ancora distanti dalla perfezione, e quindi ad ammettere di non essere quello descritto dall’amico che ci elogia e ci loda molto, bensì quello dell’amico che ci biasima e ci rimprovera con schiettezza.
Sulla schiettezza nel parlare con gli altri ci sono però da fare molte considerazioni.
Della schiettezza ci si deve servire con prudenza ed eliminando ogni eccesso dalle nostre parole; c’è infatti il pericolo di ferire ed offendere, spingendo così l’altro a non ascoltarci ed a volgersi verso gli adulatori, le cui parole non fanno male.
Poiché ogni vizio va combattuto con una virtù e non con il vizio opposto, il voler evitare l’adulazione non deve far diventare aggressivi e scortesi, e magari guastare un’amicizia per eccessiva schiettezza; come per tutte le cose, il meglio consiste nel giusto mezzo.
Per essere efficace la schiettezza deve restare disinteressata, priva di qualsiasi nesso personale. Le forme in cui si esprime devono essere appropriate, quindi prive di aggressività, ironia, sarcasmo. Con gli amici va usata solo dopo averli rasserenati con elogi.
E’ sempre bene che il rimprovero dei difetti dell’altro sia accompagnato dall’ammissione dei propri, anche per evitare la reazione sbagliata di ritorsione degli ammonimenti. A chi nega i propri errori va offerta la possibilità di difendersi e si possono suggerire delle scuse dignitose.
In alcune occasioni la schiettezza può addirittura essere inopportuna, ad esempio quando l’interlocutore è in un momento di disgrazia; inoltre essa non dovrebbe essere mai praticata di fronte ad un pubblico, né utilizzata troppo di frequente, anche per cose di poco conto, perché perderebbe di incisività e di efficacia nei momenti importanti.
C’è una schiettezza terapeutica, che mira ad impedire che venga commesso uno sbaglio nell’immediato, ed una preventiva che vuole stimolare comportamenti positivi. La prima può anche usare toni aggressivi, la seconda solo quelli persuasivi, manipolatori, adattati strumentalmente al carattere della persona.
La nuda sincerità va vista come una medicina applicata ad una ferita, quindi va applicata con delicatezza e cautela.

L’argomento finale verte sulla gestione dell’ostilità “De capienda ex inimicis utilitate”.
Ripresa l’idea di Senofonte secondo cui gli uomini assennati sanno trarre vantaggio anche da coloro con cui sono in contrasto, Plutarco propone di definire un metodo ed un’arte per ricavare del buono dall’ostilità.
Dopo aver proposto diversi esempi di cose inservibili a certi fini ma utilizzabili per altri e di eventi negativi da cui nascono conseguenze positive, si sofferma su alcune tematiche.
La prima osservazione si riferisce alla circospezione nell’agire.
Il fatto che l’ avversario studi la nostra vita alla ricerca delle tracce degli errori ci induce ad essere cauti, a prestare più attenzione, a non agire e a non parlare superficialmente o sconsideratamente e a mantenere inattaccabile la nostra condotta.
La circospezione comporta il controllo degli istinti e l’approfondimento della riflessione ed induce alla sollecitudine ed alla scelta di vivere in modo onesto ed irreprensibile. L’essere stati costretti, a causa delle inimicizie, ad adottare abitudini positive finisce per procurarci una vita migliore.
La seconda considerazione è che per rinfacciare i vizi altrui dobbiamo diventarne immuni: se muoviamo accuse ad un avversario dobbiamo evitare che queste si possano ritorcere contro di noi.
Per accusare qualcuno di essere ignorante, dobbiamo amare il sapere e l’impegno; per dargli del vigliacco dobbiamo dimostrare di aver coraggio; per definirlo dissoluto ed intemperante dobbiamo far sparire ogni segno di ogni nostra inclinazione simile.
La critica della vita di un avversario costringe all’esame della propria e quindi a correggerla riparandone gli errori; così si può trarre un’utilità persino dalle accuse fatte agli altri.
Il terzo argomento si riferisce alle critiche degli avversari.
E’ più facile che le verità spiacevoli ci siano dette dai nemici che dagli amici; per questo un insulto scagliatoci contro per ira ed ostilità può servirci a curare una debolezza che non sapevamo di avere o di cui avevamo trascurato l’importanza.
Se poi la critica ostile è una calunnia e siamo accusati di qualcosa che non ci riguarda, è comunque bene cercare di capire la ragione per cui quella calunnia è sorta; faremo poi attenzione a non cadere in comportamenti affini o collegati a quello rinfacciato. E’ anche opportuno esaminare se nei nostri discorsi, nelle nostre azioni, nei nostri interessi o nelle nostre frequentazioni c’è stato qualcosa di somigliante alla calunnia.
L’ira e gli insulti di un nemico possono allenarci all’esercizio della sopportazione e farci imparare a restare calmi di fronte agli attacchi; questi perdono molto del loro potere se non riescono ad intaccare la nostra emotività.
Riconoscere i meriti dell’avversario e non provare gelosia per i loro successi è un esercizio utile per rafforzare l’animo; ciò farà sparire anche l’invidia per le fortune degli amici.
Non serve tormentarsi perché i nostri nemici hanno più di noi; è molto meglio cercare di capire perché essi l’hanno avuto, e competere tentando di superarli in impegno, operosità, saggezza e autoconsapevolezza. Chi non si lascia accecare dai sentimenti ostili e resta osservatore imparziale della vita, dei comportamenti, dei discorsi e delle azioni dei suoi avversari, riuscirà forse a vedere che molte delle cose che hanno se le sono procurate con mezzi onesti; soffermandoci sopra imparerà a tirar fuori il meglio di sé ed a vincere i difetti che stanno ostacolando il suo successo.

[1] Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2008, collana Saggezze.