martedì 17 marzo 2009

Prima del progetto

Stiamo parlando di un progetto di aiuto allo sviluppo nell’ambito della cooperazione internazionale. Non si tratta di un progetto di “emergenza” né di “ricostruzione” e neanche di “assistenza”[1]: siamo nel campo dell’aiuto allo sviluppo o all’auto-sviluppo e dell’assistenza sostenibile[2], secondo le categorie utilizzate da Javier Schunk.

Il documento di progetto
Qualsiasi programma o progetto di cooperazione internazionale venga portato avanti, le sue probabilità di successo crescono (anche) in parallelo alla perizia con cui sono stati elaborati i documenti programmatici.
Il “progetto” è quindi innanzitutto un documento scritto, cui si dà una duplice funzione: illustrare l’azione ai diversi interessati alla realizzazione dell’idea progettuale per ottenere adesioni e finanziamenti, e in seguito servire da guida per la messa in atto delle azioni previste.

Il ciclo di progetto e la metodologia del quadro logico
Negli anni 60-80 sono state acquisite, a livello internazionale, utili esperienze nella gestione dei progetti; ciò ha portato a riconoscere i più frequenti errori metodologici e quindi a sviluppare un approccio standardizzato che aiutasse a prevenirli. E’ così sorto il concetto di “ciclo” di progetto, che prevede la sua ripartizione in una serie di fasi ben distinte ma integrate, cioè concepite e gestite in modo da essere interdipendenti. Ciò vuol dire che ogni fase tiene conto delle analisi, informazioni e metodologie del le fasi precedenti, e la gestione è concepita e realizzata come insieme di processi mirato a strutturare e facilitare il raggiungimento degli obiettivi prefissati in modo efficace ed efficiente.
La gestione integrata del ciclo di progetto ha comportato l’assunzione della metodologia del quadro logico come cassetta di strumenti per il perseguimento dell’obbiettivo, che in generale, è sempre quello di contribuire a cambiare una situazione insoddisfacente in una situazione soddisfacente: dal problema alla sua soluzione.
La metodologia del quadro logico è allo stesso tempo una filosofia d’intervento ed un insieme di tecniche da utilizzare metodicamente, tra cui la matrice del quadro logico è il più caratterizzante.

La redazione del documento
Una delle conseguenze dell’adozione generalizzata da parte degli organismi di aiuto internazionale della metodologia del quadro logico è stata la standardizzazione del modo di organizzare e scrivere il documento di progetto.
Il format usato a tale scopo può presentare lievi differenze a seconda dell’organizzazione, ma si adegua sempre ad una sequenza logica che corrisponde esattamente a quella della metodologia del quadro logico. Le organizzazioni che finanziano i progetti forniscono i propri formulari e le istruzioni per riempirli e richiedono il fedele rispetto dello schema proposto. Ciò facilita il compito del redattore del progetto, garantisce una qualità minima del documento ed evita omissioni importanti; ma nello stesso tempo riproduce il difetto insito nella metodologia del quadro logico, cioè il pericolo di indurre ad una azione meccanica e ripetitiva, povera di attività riflessiva e critica. Il beneficio apportato dall’obbligo di affrontare tutti gli aspetti importanti collegati al progetto può essere parzialmente eroso da una pigrizia mentale indotta dalla facilitazione del compito.
La matrice del quadro logico non produce automaticamente un buon progetto: è solo una cornice, ed è indifferente alla qualità di ciò che vi viene inserito. E tra i quattro criteri di qualità cui i progetti devono rispondere, solo la sostenibilità trova un apposito riquadro nei format, mentre le analisi di pertinenza, fattibilità ed efficienza devono essere inserite nel testo solo grazie alla perizia del redattore. Colore testo

Clear writing flows from clear thinking
La frase in inglese è ripresa da un manuale di John Chikati e rappresenta l’idea base di questo articolo.
La tesi che voglio sostenere è che non è probabile che un progetto possa essere scritto nel modo migliore se la sua stesura non è stata preceduta da una approfondita riflessione sugli elementi comuni a tutti i progetti e su quelli specifici dell'attuale, e che la meditazione debba riguardare un campo più vasto e generale che non la semplice analisi tecnica dell’idea progettuale.Non intendo ripetere tutto ciò che abbondantemente si trova nella letteratura ad hoc, ma solo proporre alcune idee e associazioni provenienti da altri settori del sapere umano. I temi di riflessione che qui accenno sono solamente tre.

Genesi e vita del progetto
La metafora può risultare una via più facile per mettere in luce aspetti non immediatamente visibili. Proviamo quindi a paragonare la genesi, realizzazione e fine di un progetto al concepimento, nascita, crescita e morte di un uomo. E’una metafora elementare, che si può applicare a tantissimi degli avvenimenti che si incontrano in natura.
L’unione di due gameti, provenienti da individui differenti, corrisponde all’incontro tra un bisogno espresso ed una volontà di aiuto, e la cellula fecondata rappresenta l’idea progettuale. La gestazione, durante la quale l’embrione si sviluppa, è la fase di prima stesura ed il parto dà vita alla proposta di progetto. Lo sviluppo da bambino ad adulto rappresenta l’acquisizione delle risorse necessarie e la produzione del definitivo documento di progetto, strumento guida per la sua realizzazione. La fine del progetto si ricollega alla morte, e si può completare la metafora con l’ascesa in paradiso, cioè l’autosufficienza e la sostenibilità della realizzazione, o la discesa all’inferno, cioè la vanificazione e la scomparsa dei risultati prodotti.
La riflessione può essere ampliata pensando ai geni parentali, e come questi siano corresponsabili delle caratteristiche positive e negative del figlio. In modo analogo, la misura delle motivazioni e delle capacità delle organizzazioni che prestano l'aiuto e dei gruppi beneficiari sono fattori che influenzano la qualità dei risultati prodotti.

Gestione per obiettivi
Nel momento in cui si seleziona la strategia dell’intervento di aiuto si stabilisce anche un obiettivo specifico, consistente nella descrizione dello scopo principale che il progetto vuole raggiungere. Per realizzare questo scopo si stabiliscono, assieme ai beneficiari, i risultati concreti da raggiungere con le azioni e le risorse del progetto.
Utilizzando concetti della cosiddetta “gestione per obiettivi”, l’obiettivo specifico diviene un fine ed i risultati sono gli obiettivi cColore testoui si tende. Per definizione, un obiettivo deve essere la traduzione della finalità in un risultato concreto: da una idea immateriale nasce un atto reale, solitamente materiale. Entrambi sono poi in relazione con le azioni: l’obiettivo si pone tra finalità ed azioni per verificare la sua coerenza con il fine perseguito. Azioni -> Obiettivo -> Finalità.
Ricordiamoci, infine, che di solito una finalità si realizza con più di un obiettivo, e che ciascun obiettivo è sempre funzionale a più di uno scopo.
Si può fare un parallelo con obiettivi ge nerali e obiettivi specifici, o ancor meglio con l'obiettivo specifico ed i risultati che concorrono a produrlo, e che sono il risultato delle attività.

Contratto
La terza idea si riferisce al concetto di “contratto”. Contratto è un accordo fissato per iscritto (o anche solo verbalmente) che crea un obbligo tra persone. Ma si può fare un contratto anche con se stesso, in un senso più vasto.
Nel progetto l’idea di un contratto è associata ad ogni attività. Il contratto può essere con se stesso o con i partner o i donatori o qualsiasi portatore di interesse, beneficiari compresi.
Se pensiamo al contratto che è legato ad ogni attività, ci appare più evidente che ognuna ha i sui obblighi, i suoi costi ed i suoi “profitti”: ne uscirà rafforzala la chiarezza su “chi, come, quando” svolgerà l’attività.

[1] Javier Schunk, in tema di aiuto esterno, definisce di “emergenza” l’aiuto esterno laddove esiste una situazione pericolosa davanti alla quale bisogna organizzare in tempi strettissimi l’invio dei cosiddetti aiuti umanitari; di “ricostruzione” l’intervento di aiuto esterno atto a ripristinare le condizioni di autonomia vigenti in un sistema prima dell’avvenimento della situazione pubblica pericolosa che ha generato un precedente aiuto di emergenza; e di “assistenza” l’intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo per un periodo ti tempo alcuni bisogni con l’apporto di elementi esterni al sistema che non è in grado di procurarsi in maniera autonoma né prima né durante né dopo l’intervento esterno.
[2] Ancora Javier Schunk definisce l'aiuto allo “sviluppo” come intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni al sistema: transfert unidirezionale basato su una idea di sviluppo pre-definita basata sul concetto occidentale di benessere”; e l’aiuto allo “auto-sviluppo” come intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni al sistema. Transfert bidirezionale con un’idea di sviluppo mediata fra gli attori dell’azione: ponte culturale. L’assistenza sostenibile intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo indefinitamente alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni che il sistema non è in grado di procurarsi in maniera autonoma né prima, né durante né dopo l’intervento esterno; la differenza con l’assistenza risiede nel fatto che l’esterno va fatto rientrare all’interno del Sistema.



domenica 1 marzo 2009

Non si può imparare parlando.

Cinque anni fa ero in un paese dell’Africa equatoriale e facevo parte di un gruppo di lavoro interministeriale costituito per predisporre le richieste da avanzare ad una delegazione estera che sarebbe venuta a breve. Nell’occasione ho imparato alcune cose nuove sul modo di comportarsi dei burocrati africani quando partecipano ad una riunione ufficiale. Ovviamente mi riferisco ad uno specifico Paese e ad una data epoca, ma credo che molte delle cose osservate siano collegate ad una cultura dominante in un ambito spazio-temporale molto più ampio.
Il ricordo più forte è la percezione del bisogno, comune a tutti i membri del gruppo, di “accreditarsi” come persone sagge ed autorevoli. La concretezza del lavoro e la soluzione dei problemi apparivano molto meno importanti della figura fatta da ciascuno dei presenti agli occhi degli altri; su questo c’era l’accettazione implicita di tutti ed era evidente un compromesso generale sul fatto di consentirsi reciprocamente la tutela prioritaria della propria immagine e dignità.
Ho quindi scoperto una serie di regole che lì erano molto più importanti e vincolanti che non in situazioni analoghe in Europa.
Nessuno poteva essere interrotto quando parlava, neanche per chiedere chiarimenti; sembrava fosse un problema dei rispetto dell’altrui dignità, come se solo un “superiore” potesse interrompere il sottoposto, e mai viceversa; quindi, inter pares, l’intromissione poteva creare una definizione di ruolo percepibile come offesa alla dignità dell’altro.
Il tempo non aveva molto valore: bisognava far passare la giornata ed uscirne con un’immagine positiva di se stessi, a prescindere da cosa sarebbe derivato concretamente dalla riunione. E questo si legava a due aspetti particolari di quella cultura: il futuro non esiste (anziché essere più importante del presente, e quindi rovinarlo, come in Europa); ed il riunirsi a parlare è di per sé stesso il lavoro (a prescindere dalla sua eventuale attuazione in un futuro che, come detto, non esiste).
Tutti dovevano avere la possibilità di recitare il proprio show: la prassi era quindi quella del “giro di tavolo”, anziché della richiesta di parola da parte di chi aveva qualcosa di importante da dire. Questo consentiva anche al più timido e insicuro di offrire la sua opinione, e quindi comparire poi sul verbale della riunione, ma presentava tre grossi inconvenienti: chi non aveva nulla da dire si sentiva comunque costretto ad inventarsi un qualcosa, di solito irrilevante o già noto; gli aspetti più importanti non venivano anticipati e resi basi di discussione, e si perdevano tra altri più fatui; ed infine si sciupava un sacco di tempo anche per argomenti assolutamente banali.
La correzione del verbale della seduta precedente era l’occasione per mettersi in mostra con un proprio contributo al lavoro, quindi tutti intervenivano. Purtroppo raramente c’era qualcosa da modificare nel contenuto o nell’interpretazione del resoconto, quindi le correzioni erano quasi esclusivamente sintattiche e grammaticali. Questo interventi in Europa sarebbero stati degli “autogol”, interpretati come un soffermarsi sulla forma anziché sul contenuto; lì non sembravano avere questo effetto, anzi la correzione del linguaggio sembrava costituire la dimostrazione di una cultura superiore alla media e quindi utile ad aumentare il prestigio della persona.

Quella occasione mi è stata utile per colmare una mia lacuna. Nel mio Paese e negli ambienti che avevo frequentati non esisteva il ruolo di “facilitatore” all’interno dei gruppi di lavoro, composti solo da esperti o parti interessate. Conoscevo il concetto ed il termine sin dagli anni ’80, quando mi ero interessato alle teorie relazionali e neurolinguistiche della cosiddetta “scuola di Palo Alto”, ma non ne avevo mai visto una applicazione concreta. In realtà non c’è stata neanche nella circostanza, e ciò per colpa della mia ignoranza.
Il leader del gruppo, persona di inaspettato valore, mi assegnò il ruolo di “facilitateur”; io capii solo in parte, ed in modo distorto, cosa ci si aspettava da me e mi comportai invece come un vero membro del gruppo di lavoro, che aveva le sue idee e cercava di farle affermare.
Qualche anno dopo ho letto un saggio, di cui purtroppo non ho annotato autore e riferimenti, che mi ha chiarito diversi aspetti dell’attività del facilitatore.
Di quanto appreso mi resta, schematicamente, quanto segue:
- Il facilitatore sa che non si può imparare parlando. Per questo preferisce ascoltare ed osservare il linguaggio del corpo.
- Quando parla lo fa solo per chiedere quali siano i problemi, perché deve capire chi vuole cosa.
- Ascolta le soluzioni proposte: il talento consiste nel comprendere cosa viene espresso e scoprire i collegamenti che ci sono tra le diverse opinioni. Quali delle idee e delle aspirazioni nascoste nei discorsi possono allinearsi tra loro e con le proprie?
- Cerca le sovrapposizioni esistenti: la persuasione è più un’attività di allineamento tra opinioni diverse che non un convincere i più deboli a rinunciare alle proprie idee a favore di quelle altrui.
- Convince sul principio che non ci sia soluzione senza compromesso.
- Propone una soluzione che contenga una parte di ogni interesse individuale.
- Può usare tre principali suggestioni persuasive:
1. l’appropriatezza: quanto si propone è già fatto da altri;
2. la coincidenza tra quanto proposto e le idee ed i desideri dell’altro;
3. l’efficacia delle proposte ai fini di ottenere i risultati voluti.
- L’abilità persuasiva consiste nello scegliere la suggestione adatta al caso presente; per questo l’ascolto è mirato anche a capire quali siano gli interessi primari dei diversi interlocutori l’opinione degli altri, i diversi sentimenti e desideri, l’obiettivo perseguito.
- Il facilitatore inquadra in modo ottimale la problematica: un contrasto d’opinioni diventa un dibattito sulle possibili soluzioni di un problema, la testardaggine diventa persistenza, ecc.
- Tra gente che vede bianco o nero, il facilitatore vede grigio: non parla in termini di vero o falso, giusto o sbagliato o polarità simili, bensì ricorrendo a varie tonalità di “grigio”.
- Può produrre una “nebbia” ponendo domande che creano dubbi, sottolineando la particolarità della situazione e proponendo prospettive ed opzioni nuove. Non ha “sì” o “no”, bensì un ampio spettro di possibilità.
- Cura la chiarezza e la concisione nella comunicazione, ed è pronto ad ammettere i suoi errori.
- Tratta un solo argomento alla volta.