domenica 1 marzo 2009

Non si può imparare parlando.

Cinque anni fa ero in un paese dell’Africa equatoriale e facevo parte di un gruppo di lavoro interministeriale costituito per predisporre le richieste da avanzare ad una delegazione estera che sarebbe venuta a breve. Nell’occasione ho imparato alcune cose nuove sul modo di comportarsi dei burocrati africani quando partecipano ad una riunione ufficiale. Ovviamente mi riferisco ad uno specifico Paese e ad una data epoca, ma credo che molte delle cose osservate siano collegate ad una cultura dominante in un ambito spazio-temporale molto più ampio.
Il ricordo più forte è la percezione del bisogno, comune a tutti i membri del gruppo, di “accreditarsi” come persone sagge ed autorevoli. La concretezza del lavoro e la soluzione dei problemi apparivano molto meno importanti della figura fatta da ciascuno dei presenti agli occhi degli altri; su questo c’era l’accettazione implicita di tutti ed era evidente un compromesso generale sul fatto di consentirsi reciprocamente la tutela prioritaria della propria immagine e dignità.
Ho quindi scoperto una serie di regole che lì erano molto più importanti e vincolanti che non in situazioni analoghe in Europa.
Nessuno poteva essere interrotto quando parlava, neanche per chiedere chiarimenti; sembrava fosse un problema dei rispetto dell’altrui dignità, come se solo un “superiore” potesse interrompere il sottoposto, e mai viceversa; quindi, inter pares, l’intromissione poteva creare una definizione di ruolo percepibile come offesa alla dignità dell’altro.
Il tempo non aveva molto valore: bisognava far passare la giornata ed uscirne con un’immagine positiva di se stessi, a prescindere da cosa sarebbe derivato concretamente dalla riunione. E questo si legava a due aspetti particolari di quella cultura: il futuro non esiste (anziché essere più importante del presente, e quindi rovinarlo, come in Europa); ed il riunirsi a parlare è di per sé stesso il lavoro (a prescindere dalla sua eventuale attuazione in un futuro che, come detto, non esiste).
Tutti dovevano avere la possibilità di recitare il proprio show: la prassi era quindi quella del “giro di tavolo”, anziché della richiesta di parola da parte di chi aveva qualcosa di importante da dire. Questo consentiva anche al più timido e insicuro di offrire la sua opinione, e quindi comparire poi sul verbale della riunione, ma presentava tre grossi inconvenienti: chi non aveva nulla da dire si sentiva comunque costretto ad inventarsi un qualcosa, di solito irrilevante o già noto; gli aspetti più importanti non venivano anticipati e resi basi di discussione, e si perdevano tra altri più fatui; ed infine si sciupava un sacco di tempo anche per argomenti assolutamente banali.
La correzione del verbale della seduta precedente era l’occasione per mettersi in mostra con un proprio contributo al lavoro, quindi tutti intervenivano. Purtroppo raramente c’era qualcosa da modificare nel contenuto o nell’interpretazione del resoconto, quindi le correzioni erano quasi esclusivamente sintattiche e grammaticali. Questo interventi in Europa sarebbero stati degli “autogol”, interpretati come un soffermarsi sulla forma anziché sul contenuto; lì non sembravano avere questo effetto, anzi la correzione del linguaggio sembrava costituire la dimostrazione di una cultura superiore alla media e quindi utile ad aumentare il prestigio della persona.

Quella occasione mi è stata utile per colmare una mia lacuna. Nel mio Paese e negli ambienti che avevo frequentati non esisteva il ruolo di “facilitatore” all’interno dei gruppi di lavoro, composti solo da esperti o parti interessate. Conoscevo il concetto ed il termine sin dagli anni ’80, quando mi ero interessato alle teorie relazionali e neurolinguistiche della cosiddetta “scuola di Palo Alto”, ma non ne avevo mai visto una applicazione concreta. In realtà non c’è stata neanche nella circostanza, e ciò per colpa della mia ignoranza.
Il leader del gruppo, persona di inaspettato valore, mi assegnò il ruolo di “facilitateur”; io capii solo in parte, ed in modo distorto, cosa ci si aspettava da me e mi comportai invece come un vero membro del gruppo di lavoro, che aveva le sue idee e cercava di farle affermare.
Qualche anno dopo ho letto un saggio, di cui purtroppo non ho annotato autore e riferimenti, che mi ha chiarito diversi aspetti dell’attività del facilitatore.
Di quanto appreso mi resta, schematicamente, quanto segue:
- Il facilitatore sa che non si può imparare parlando. Per questo preferisce ascoltare ed osservare il linguaggio del corpo.
- Quando parla lo fa solo per chiedere quali siano i problemi, perché deve capire chi vuole cosa.
- Ascolta le soluzioni proposte: il talento consiste nel comprendere cosa viene espresso e scoprire i collegamenti che ci sono tra le diverse opinioni. Quali delle idee e delle aspirazioni nascoste nei discorsi possono allinearsi tra loro e con le proprie?
- Cerca le sovrapposizioni esistenti: la persuasione è più un’attività di allineamento tra opinioni diverse che non un convincere i più deboli a rinunciare alle proprie idee a favore di quelle altrui.
- Convince sul principio che non ci sia soluzione senza compromesso.
- Propone una soluzione che contenga una parte di ogni interesse individuale.
- Può usare tre principali suggestioni persuasive:
1. l’appropriatezza: quanto si propone è già fatto da altri;
2. la coincidenza tra quanto proposto e le idee ed i desideri dell’altro;
3. l’efficacia delle proposte ai fini di ottenere i risultati voluti.
- L’abilità persuasiva consiste nello scegliere la suggestione adatta al caso presente; per questo l’ascolto è mirato anche a capire quali siano gli interessi primari dei diversi interlocutori l’opinione degli altri, i diversi sentimenti e desideri, l’obiettivo perseguito.
- Il facilitatore inquadra in modo ottimale la problematica: un contrasto d’opinioni diventa un dibattito sulle possibili soluzioni di un problema, la testardaggine diventa persistenza, ecc.
- Tra gente che vede bianco o nero, il facilitatore vede grigio: non parla in termini di vero o falso, giusto o sbagliato o polarità simili, bensì ricorrendo a varie tonalità di “grigio”.
- Può produrre una “nebbia” ponendo domande che creano dubbi, sottolineando la particolarità della situazione e proponendo prospettive ed opzioni nuove. Non ha “sì” o “no”, bensì un ampio spettro di possibilità.
- Cura la chiarezza e la concisione nella comunicazione, ed è pronto ad ammettere i suoi errori.
- Tratta un solo argomento alla volta.

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