martedì 17 marzo 2009

Prima del progetto

Stiamo parlando di un progetto di aiuto allo sviluppo nell’ambito della cooperazione internazionale. Non si tratta di un progetto di “emergenza” né di “ricostruzione” e neanche di “assistenza”[1]: siamo nel campo dell’aiuto allo sviluppo o all’auto-sviluppo e dell’assistenza sostenibile[2], secondo le categorie utilizzate da Javier Schunk.

Il documento di progetto
Qualsiasi programma o progetto di cooperazione internazionale venga portato avanti, le sue probabilità di successo crescono (anche) in parallelo alla perizia con cui sono stati elaborati i documenti programmatici.
Il “progetto” è quindi innanzitutto un documento scritto, cui si dà una duplice funzione: illustrare l’azione ai diversi interessati alla realizzazione dell’idea progettuale per ottenere adesioni e finanziamenti, e in seguito servire da guida per la messa in atto delle azioni previste.

Il ciclo di progetto e la metodologia del quadro logico
Negli anni 60-80 sono state acquisite, a livello internazionale, utili esperienze nella gestione dei progetti; ciò ha portato a riconoscere i più frequenti errori metodologici e quindi a sviluppare un approccio standardizzato che aiutasse a prevenirli. E’ così sorto il concetto di “ciclo” di progetto, che prevede la sua ripartizione in una serie di fasi ben distinte ma integrate, cioè concepite e gestite in modo da essere interdipendenti. Ciò vuol dire che ogni fase tiene conto delle analisi, informazioni e metodologie del le fasi precedenti, e la gestione è concepita e realizzata come insieme di processi mirato a strutturare e facilitare il raggiungimento degli obiettivi prefissati in modo efficace ed efficiente.
La gestione integrata del ciclo di progetto ha comportato l’assunzione della metodologia del quadro logico come cassetta di strumenti per il perseguimento dell’obbiettivo, che in generale, è sempre quello di contribuire a cambiare una situazione insoddisfacente in una situazione soddisfacente: dal problema alla sua soluzione.
La metodologia del quadro logico è allo stesso tempo una filosofia d’intervento ed un insieme di tecniche da utilizzare metodicamente, tra cui la matrice del quadro logico è il più caratterizzante.

La redazione del documento
Una delle conseguenze dell’adozione generalizzata da parte degli organismi di aiuto internazionale della metodologia del quadro logico è stata la standardizzazione del modo di organizzare e scrivere il documento di progetto.
Il format usato a tale scopo può presentare lievi differenze a seconda dell’organizzazione, ma si adegua sempre ad una sequenza logica che corrisponde esattamente a quella della metodologia del quadro logico. Le organizzazioni che finanziano i progetti forniscono i propri formulari e le istruzioni per riempirli e richiedono il fedele rispetto dello schema proposto. Ciò facilita il compito del redattore del progetto, garantisce una qualità minima del documento ed evita omissioni importanti; ma nello stesso tempo riproduce il difetto insito nella metodologia del quadro logico, cioè il pericolo di indurre ad una azione meccanica e ripetitiva, povera di attività riflessiva e critica. Il beneficio apportato dall’obbligo di affrontare tutti gli aspetti importanti collegati al progetto può essere parzialmente eroso da una pigrizia mentale indotta dalla facilitazione del compito.
La matrice del quadro logico non produce automaticamente un buon progetto: è solo una cornice, ed è indifferente alla qualità di ciò che vi viene inserito. E tra i quattro criteri di qualità cui i progetti devono rispondere, solo la sostenibilità trova un apposito riquadro nei format, mentre le analisi di pertinenza, fattibilità ed efficienza devono essere inserite nel testo solo grazie alla perizia del redattore. Colore testo

Clear writing flows from clear thinking
La frase in inglese è ripresa da un manuale di John Chikati e rappresenta l’idea base di questo articolo.
La tesi che voglio sostenere è che non è probabile che un progetto possa essere scritto nel modo migliore se la sua stesura non è stata preceduta da una approfondita riflessione sugli elementi comuni a tutti i progetti e su quelli specifici dell'attuale, e che la meditazione debba riguardare un campo più vasto e generale che non la semplice analisi tecnica dell’idea progettuale.Non intendo ripetere tutto ciò che abbondantemente si trova nella letteratura ad hoc, ma solo proporre alcune idee e associazioni provenienti da altri settori del sapere umano. I temi di riflessione che qui accenno sono solamente tre.

Genesi e vita del progetto
La metafora può risultare una via più facile per mettere in luce aspetti non immediatamente visibili. Proviamo quindi a paragonare la genesi, realizzazione e fine di un progetto al concepimento, nascita, crescita e morte di un uomo. E’una metafora elementare, che si può applicare a tantissimi degli avvenimenti che si incontrano in natura.
L’unione di due gameti, provenienti da individui differenti, corrisponde all’incontro tra un bisogno espresso ed una volontà di aiuto, e la cellula fecondata rappresenta l’idea progettuale. La gestazione, durante la quale l’embrione si sviluppa, è la fase di prima stesura ed il parto dà vita alla proposta di progetto. Lo sviluppo da bambino ad adulto rappresenta l’acquisizione delle risorse necessarie e la produzione del definitivo documento di progetto, strumento guida per la sua realizzazione. La fine del progetto si ricollega alla morte, e si può completare la metafora con l’ascesa in paradiso, cioè l’autosufficienza e la sostenibilità della realizzazione, o la discesa all’inferno, cioè la vanificazione e la scomparsa dei risultati prodotti.
La riflessione può essere ampliata pensando ai geni parentali, e come questi siano corresponsabili delle caratteristiche positive e negative del figlio. In modo analogo, la misura delle motivazioni e delle capacità delle organizzazioni che prestano l'aiuto e dei gruppi beneficiari sono fattori che influenzano la qualità dei risultati prodotti.

Gestione per obiettivi
Nel momento in cui si seleziona la strategia dell’intervento di aiuto si stabilisce anche un obiettivo specifico, consistente nella descrizione dello scopo principale che il progetto vuole raggiungere. Per realizzare questo scopo si stabiliscono, assieme ai beneficiari, i risultati concreti da raggiungere con le azioni e le risorse del progetto.
Utilizzando concetti della cosiddetta “gestione per obiettivi”, l’obiettivo specifico diviene un fine ed i risultati sono gli obiettivi cColore testoui si tende. Per definizione, un obiettivo deve essere la traduzione della finalità in un risultato concreto: da una idea immateriale nasce un atto reale, solitamente materiale. Entrambi sono poi in relazione con le azioni: l’obiettivo si pone tra finalità ed azioni per verificare la sua coerenza con il fine perseguito. Azioni -> Obiettivo -> Finalità.
Ricordiamoci, infine, che di solito una finalità si realizza con più di un obiettivo, e che ciascun obiettivo è sempre funzionale a più di uno scopo.
Si può fare un parallelo con obiettivi ge nerali e obiettivi specifici, o ancor meglio con l'obiettivo specifico ed i risultati che concorrono a produrlo, e che sono il risultato delle attività.

Contratto
La terza idea si riferisce al concetto di “contratto”. Contratto è un accordo fissato per iscritto (o anche solo verbalmente) che crea un obbligo tra persone. Ma si può fare un contratto anche con se stesso, in un senso più vasto.
Nel progetto l’idea di un contratto è associata ad ogni attività. Il contratto può essere con se stesso o con i partner o i donatori o qualsiasi portatore di interesse, beneficiari compresi.
Se pensiamo al contratto che è legato ad ogni attività, ci appare più evidente che ognuna ha i sui obblighi, i suoi costi ed i suoi “profitti”: ne uscirà rafforzala la chiarezza su “chi, come, quando” svolgerà l’attività.

[1] Javier Schunk, in tema di aiuto esterno, definisce di “emergenza” l’aiuto esterno laddove esiste una situazione pericolosa davanti alla quale bisogna organizzare in tempi strettissimi l’invio dei cosiddetti aiuti umanitari; di “ricostruzione” l’intervento di aiuto esterno atto a ripristinare le condizioni di autonomia vigenti in un sistema prima dell’avvenimento della situazione pubblica pericolosa che ha generato un precedente aiuto di emergenza; e di “assistenza” l’intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo per un periodo ti tempo alcuni bisogni con l’apporto di elementi esterni al sistema che non è in grado di procurarsi in maniera autonoma né prima né durante né dopo l’intervento esterno.
[2] Ancora Javier Schunk definisce l'aiuto allo “sviluppo” come intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni al sistema: transfert unidirezionale basato su una idea di sviluppo pre-definita basata sul concetto occidentale di benessere”; e l’aiuto allo “auto-sviluppo” come intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni al sistema. Transfert bidirezionale con un’idea di sviluppo mediata fra gli attori dell’azione: ponte culturale. L’assistenza sostenibile intervento di aiuto esterno atto a migliorare il sistema originale coprendo indefinitamente alcuni bisogni attraverso l’apporto di elementi esterni che il sistema non è in grado di procurarsi in maniera autonoma né prima, né durante né dopo l’intervento esterno; la differenza con l’assistenza risiede nel fatto che l’esterno va fatto rientrare all’interno del Sistema.



domenica 1 marzo 2009

Non si può imparare parlando.

Cinque anni fa ero in un paese dell’Africa equatoriale e facevo parte di un gruppo di lavoro interministeriale costituito per predisporre le richieste da avanzare ad una delegazione estera che sarebbe venuta a breve. Nell’occasione ho imparato alcune cose nuove sul modo di comportarsi dei burocrati africani quando partecipano ad una riunione ufficiale. Ovviamente mi riferisco ad uno specifico Paese e ad una data epoca, ma credo che molte delle cose osservate siano collegate ad una cultura dominante in un ambito spazio-temporale molto più ampio.
Il ricordo più forte è la percezione del bisogno, comune a tutti i membri del gruppo, di “accreditarsi” come persone sagge ed autorevoli. La concretezza del lavoro e la soluzione dei problemi apparivano molto meno importanti della figura fatta da ciascuno dei presenti agli occhi degli altri; su questo c’era l’accettazione implicita di tutti ed era evidente un compromesso generale sul fatto di consentirsi reciprocamente la tutela prioritaria della propria immagine e dignità.
Ho quindi scoperto una serie di regole che lì erano molto più importanti e vincolanti che non in situazioni analoghe in Europa.
Nessuno poteva essere interrotto quando parlava, neanche per chiedere chiarimenti; sembrava fosse un problema dei rispetto dell’altrui dignità, come se solo un “superiore” potesse interrompere il sottoposto, e mai viceversa; quindi, inter pares, l’intromissione poteva creare una definizione di ruolo percepibile come offesa alla dignità dell’altro.
Il tempo non aveva molto valore: bisognava far passare la giornata ed uscirne con un’immagine positiva di se stessi, a prescindere da cosa sarebbe derivato concretamente dalla riunione. E questo si legava a due aspetti particolari di quella cultura: il futuro non esiste (anziché essere più importante del presente, e quindi rovinarlo, come in Europa); ed il riunirsi a parlare è di per sé stesso il lavoro (a prescindere dalla sua eventuale attuazione in un futuro che, come detto, non esiste).
Tutti dovevano avere la possibilità di recitare il proprio show: la prassi era quindi quella del “giro di tavolo”, anziché della richiesta di parola da parte di chi aveva qualcosa di importante da dire. Questo consentiva anche al più timido e insicuro di offrire la sua opinione, e quindi comparire poi sul verbale della riunione, ma presentava tre grossi inconvenienti: chi non aveva nulla da dire si sentiva comunque costretto ad inventarsi un qualcosa, di solito irrilevante o già noto; gli aspetti più importanti non venivano anticipati e resi basi di discussione, e si perdevano tra altri più fatui; ed infine si sciupava un sacco di tempo anche per argomenti assolutamente banali.
La correzione del verbale della seduta precedente era l’occasione per mettersi in mostra con un proprio contributo al lavoro, quindi tutti intervenivano. Purtroppo raramente c’era qualcosa da modificare nel contenuto o nell’interpretazione del resoconto, quindi le correzioni erano quasi esclusivamente sintattiche e grammaticali. Questo interventi in Europa sarebbero stati degli “autogol”, interpretati come un soffermarsi sulla forma anziché sul contenuto; lì non sembravano avere questo effetto, anzi la correzione del linguaggio sembrava costituire la dimostrazione di una cultura superiore alla media e quindi utile ad aumentare il prestigio della persona.

Quella occasione mi è stata utile per colmare una mia lacuna. Nel mio Paese e negli ambienti che avevo frequentati non esisteva il ruolo di “facilitatore” all’interno dei gruppi di lavoro, composti solo da esperti o parti interessate. Conoscevo il concetto ed il termine sin dagli anni ’80, quando mi ero interessato alle teorie relazionali e neurolinguistiche della cosiddetta “scuola di Palo Alto”, ma non ne avevo mai visto una applicazione concreta. In realtà non c’è stata neanche nella circostanza, e ciò per colpa della mia ignoranza.
Il leader del gruppo, persona di inaspettato valore, mi assegnò il ruolo di “facilitateur”; io capii solo in parte, ed in modo distorto, cosa ci si aspettava da me e mi comportai invece come un vero membro del gruppo di lavoro, che aveva le sue idee e cercava di farle affermare.
Qualche anno dopo ho letto un saggio, di cui purtroppo non ho annotato autore e riferimenti, che mi ha chiarito diversi aspetti dell’attività del facilitatore.
Di quanto appreso mi resta, schematicamente, quanto segue:
- Il facilitatore sa che non si può imparare parlando. Per questo preferisce ascoltare ed osservare il linguaggio del corpo.
- Quando parla lo fa solo per chiedere quali siano i problemi, perché deve capire chi vuole cosa.
- Ascolta le soluzioni proposte: il talento consiste nel comprendere cosa viene espresso e scoprire i collegamenti che ci sono tra le diverse opinioni. Quali delle idee e delle aspirazioni nascoste nei discorsi possono allinearsi tra loro e con le proprie?
- Cerca le sovrapposizioni esistenti: la persuasione è più un’attività di allineamento tra opinioni diverse che non un convincere i più deboli a rinunciare alle proprie idee a favore di quelle altrui.
- Convince sul principio che non ci sia soluzione senza compromesso.
- Propone una soluzione che contenga una parte di ogni interesse individuale.
- Può usare tre principali suggestioni persuasive:
1. l’appropriatezza: quanto si propone è già fatto da altri;
2. la coincidenza tra quanto proposto e le idee ed i desideri dell’altro;
3. l’efficacia delle proposte ai fini di ottenere i risultati voluti.
- L’abilità persuasiva consiste nello scegliere la suggestione adatta al caso presente; per questo l’ascolto è mirato anche a capire quali siano gli interessi primari dei diversi interlocutori l’opinione degli altri, i diversi sentimenti e desideri, l’obiettivo perseguito.
- Il facilitatore inquadra in modo ottimale la problematica: un contrasto d’opinioni diventa un dibattito sulle possibili soluzioni di un problema, la testardaggine diventa persistenza, ecc.
- Tra gente che vede bianco o nero, il facilitatore vede grigio: non parla in termini di vero o falso, giusto o sbagliato o polarità simili, bensì ricorrendo a varie tonalità di “grigio”.
- Può produrre una “nebbia” ponendo domande che creano dubbi, sottolineando la particolarità della situazione e proponendo prospettive ed opzioni nuove. Non ha “sì” o “no”, bensì un ampio spettro di possibilità.
- Cura la chiarezza e la concisione nella comunicazione, ed è pronto ad ammettere i suoi errori.
- Tratta un solo argomento alla volta.

sabato 31 gennaio 2009

Caccia grossa in Africa (... ai donatori)

Nel luglio 2005 in una libreria di Nairobi trovai il volume The Project Proposal Writing Handbook, sottotitolo An Essential Book for Everyone involved in Development, autore John Chikati, edito nell’anno 2000.
Ritenendomi “involved in development” lo acquistai, ma al primo esame non mi sembrò molto interessante e rimase tra i libri da leggere “quando ne avrò tempo”. Solo nel gennaio 2009, crescendo il mio coinvolgimento nella cooperazione, ho ripreso in mano il manuale per studiare realmente le idee del suo autore.
La prima cosa scoperta è stata che il testo era indirizzato alle ONG dei paesi poveri e non a quelle del Nord; da ciò discendeva un’interessante differenza di approccio all’argomento.
La maggior parte delle ONG, ovunque, fonda la sua sopravvivenza sullo scrivere e realizzare progetti, cercando finanziamenti esterni che si spera permettano di realizzare gli obiettivi, ma che in ogni caso raggiungono almeno lo scopo di pagare salari e rimborsi a chi vi lavora. Però le persone delle ONG cosiddette “locali” vivono nelle stesse società dei beneficiari del progetto e appartengono alle stesse etnie, specialmente in Africa; c’è quindi in loro un certo grado di identificazione con le popolazioni assistite, per cui subiscono la pressione, più o meno conscia, a sentirsi loro stessi beneficiari “finali” più che “intermedi”. Questa differenza di atteggiamento psicologico si fa sentire nella concezione e scrittura delle proposte di progetto destinate ai possibili finanziatori e traspare abbastanza chiaramente nei suggerimenti dati dall’autore del manuale.
In alcune esperienze africane ho potuto ravvisare una autentica “caccia” al finanziamento, con lo sponsor nel ruolo di “preda” da catturare con tecniche e trappole perfezionate mediante lo studio del suo modo di pensare e di agire, delle sue abitudini e regole, dei suoi preconcetti e sentimenti.
Credo che questo modo di pensare “africano” dovrebbe essere proficuamente messo al servizio della “buona causa” ed integrato nel patrimonio concettuale di tutti i redattori di progetti, arricchendolo di idee per l’elaborazione di documenti più persuasivi ed efficaci.
A tal fine, la maggiore utilità è ricavabile dalla prima parte – introduttiva – del manuale. La parte successiva tratta di uno schema generale di proposta di progetto utilizzabile quando l’istituzione cui ci si rivolge non impone un suo formato e torna quindi utile solo in questa specifica circostanza.

E’ un fatto che le organizzazioni ottengono maggiori successi quando migliorano la loro capacità di scrivere progetti.
Le proposte di progetto hanno una duplice utilità: sono inizialmente un indispensabile strumento di fund raising e diventano poi una guida pratica per la realizzazione concreta del progetto.
Il progetto è indirizzato ai potenziali finanziatori oltre che ai partner ed ai collaboratori interni. A queste persone deve essere comunicato, con accuratezza e chiarezza, il bisogno identificato ed il piano, disegnato per soddisfarlo, su cui si basa la proposta di progetto.
I primi destinatari del documento sono i potenziali donatori, rappresentati di solito da grandi agenzie statali o internazionali. Queste agenzie hanno fondi limitati e ricevono un gran numero di richieste, per cui le proposte presentate dalle ONG sono in competizione tra loro in una gara per ottenere il miglior giudizio. Chi prepara il progetto deve preoccuparsi di questa concorrenza (Think competitively!) e valutare dove la proposta di progetto è simile o si differenzia da quelle degli altri, e dove si è realmente più forti o più deboli rispetto a loro. Né va dimenticato che le agenzie hanno sempre dei propri criteri per la concessione di fondi e specifiche regole per la ricezione e l’esame delle richieste.
Generalmente i donatori esaminano le organizzazioni richiedenti da tre punti di vista:
1. L’autorevolezza e l’onorabilità della governance, a garanzia che i fondi concessi saranno utilizzati nel modo dovuto;
2. La credibilità dell’organizzazione per quanto riguarda la possibilità di realizzare effettivamente quanto previsto;
3. La capacità di documentare e rendicontare dettagliatamente le attività svolte e l’utilizzazione dei fondi.
Il donatore deve essere convinto che il richiedente rappresenta realmente la buona causa e utilizzerà in modo efficiente il denaro elargito; deve inoltre credere che la sua donazione farà la differenza, anche se in piccola parte.
L’ONG mira a guadagnarsi la fiducia descrivendo dettagliatamente il proprio background:
- La storia, con le date di fondazione e degli eventi più significativi;
- Le realizzazioni più importanti;
- Gli scopi e l’utilità sociale;
- Da chi è composta;
- Chi sono i suoi beneficiari;
- I problemi e le sfide affrontati;
- I programmi e servizi offerti;
- La reputazione in merito a capacità gestionali e business acumen;
- I rapporti con il fisco.
Nel preparare il documento con la proposta di progetto alcuni punti devono ricevere una attenzione particolare:
a) Gli obiettivi perseguiti dal progetto vanno espressi in termini di risultati a breve termine, specifici e misurabili.
b) Il co-finanziamento della ONG e della comunità locale deve essere indicato sia in termini quantitativi che come percentuale del costo complessivo del progetto.
c) Un aspetto spesso sottovalutato è la tempestività nel richiedere i finanziamenti. La regola dice che quanto prima si presenta la domanda meglio è, e ciò non tanto per prendere i “primi posti” tra le tante richieste che pervengono al donatore, quanto per darsi la possibilità di dialogare e chiarire, oltre che di rettificare il documento.
d) La pertinenza va valutata non solo tra problema e progetto, ma anche nei riguardi dell’ente donatore e dell’organizzazione richiedente.
e) E’ molto influente e va quindi cercata ogni possibile correlazione con altre iniziative in corso o pregresse, o anche future.
f) Nel preparare la proposta si deve pensare ai finanziatori. Chi possono essere? Quali speranze e timori possono nutrire? Quali avversioni e bisogni potrebbero avere? Sono donatori “tipici” per quel progetto e per l’organizzazione richiedente, o devono essere “persuasi”?
g) Non basta essere buoni comunicatori per risultare persuasivi. Bisogna essere sostenuti da buone referenze e queste sono soprattutto quelle fornite dai donatori attuali e precedenti, specie se si tratta di enti autorevoli e potenti. Le referenze, di tutti i tipi, vanno espressamente ricercate perché rafforzano la credibilità. Invece non si deve mai ricorrere a referenze negative dei concorrenti, perché si avrebbero delle ricadute negative.
h) Se i possibili donatori hanno propri formulari per le richieste, questi devono essere usati senza eccezioni. Si può personalizzare il documento solo nei limiti concessi o quando il donatore non ha proprie regole. Il progetto deve essere in inglese oppure nella lingua del donatore.
i) Può essere preferibile richiedere finanziamenti a più donatori, con co-partenariati. In tal caso si devono indicare nel piano finanziario tutte le richieste presentate ai diversi donatori. Se si verificano dei “doppi finanziamenti” entrambi gli interessati vanno informati.
l) E’ un noto principio del fund raising che le persone donano a persone perché queste aiutino altre persone bisognose. Le agenzie e gli altri enti donatori non sono entità astratte, senza anima; anzi le persone che vi lavorano sono ben disposte a finanziare progetti di aiuto allo sviluppo. Possono anche essere interpellate per chiarimenti preventivi su regole, formulari, date, lingua da usare (se non si ha risposta, vuol dire che l’agenzia ha poco personale; meglio passare ad altri).
m) Le agenzie hanno bisogno di ricevere buoni progetti proposti da organizzazioni esperte. In questi casi sono i progetti che si affermano da soli e non c’è quindi bisogno di pregare, basta invitare a condividere l’impresa.
n) Le grandi agenzie hanno solitamente, nei paesi poveri, delle ONG di riferimento con cui solitamente operano. E’ importante conoscere i partenariati già esistenti nelle regioni di interesse, così come è bene informarsi presso le organizzazioni simili sulle loro fonti di finanziamento.
o) I donatori seguono sempre delle priorità nelle loro scelte. Di solito vengono favoriti i programmi di sviluppo, formazione e promozione comunitari su piccola scala. Sono anche privilegiati i programmi di sviluppo integrato, nei quali lo sviluppo prende in considerazione tutti gli aspetti della vita.
p) I donatori preferiscono affidarsi alle ONG con cui hanno già lavorato e di cui si fidano (partner tradizionali). Quindi è meglio per una ONG presentare richieste a chi le ha già finanziato progetti in precedenza.
q) Il miglior approccio ad un donatore è tramite richiesta di un appuntamento; la mediazione di un amico è utile ma non indispensabile. Si può anche chiedere per telefono quale sia la persona più appropriata per un colloquio personale. Invece non è bene anticipare dettagli per telefono, a meno di esplicita richiesta.

Perché c’è chi non ha mai avuto progetti finanziati dalla cooperazione internazionale? Possono esserci tre motivi:
1) Non ha mai fatto richieste.
2) Le sue richieste non erano fatte in modo corretto.
3) Ha rinunciato troppo presto.
Può capitare che un buon progetto, presentato nel modo corretto all’agenzia giusta, non sia finanziato al primo colpo. Quel che va fatto è: Keep trying! Alla fine gli sforzi potrebbero essere ricompensati.
Costruire un buon progetto, prepararne una buona presentazione (clear writing flows from clear thinking) e poi fornirgli un supporto adeguato, tutto ciò richiede molto tempo ed energia.